LA RIVOLUZIONE FRANCESE di Giuseppe Campolo

LIBERTÉ

Non era la monarchia o la repubblica, il dilemma del popolo[1]. Non era la disparità sociale a indignarlo. Non l’impensierivano i diritti politici, e di votare non gl’importava un fico. Erano l’affannarsi continuo senza costrutto e le sue ore rapinate dalle ambasce, a esasperarlo. Non so fino a che punto fosse patriota, ma alla guerra ci andava perché costretto e per il soldo. L’Amministrazione l’opprimeva, lo svenava, gli gabellava l’uso della terra. I regnanti la prendevano e la davano. Un uomo libero, allora, era chi aveva la terra. E l’uomo libero, paradossalmente, era un parassita. Forse il popolo sperava di ricevere la terra dalla Rivoluzione. Ma s’ingannava; ottenne in cambio l’impalpabile libertà astratta che non aveva chiesto, che ancora gli costa mortificazione, sangue e sudore, senza aver mai potuto conoscere riscatto.
Quando il dominio prese la forma del capitale, fu meno chiaro per quali vie indebite vorticasse al centro; e qualcuno si affannò a dimostrare che i suoi detentori usurpavano il plusvalore. Ora il popolo subiva (in aggiunta ai patimenti quotidiani) il doppio travaglio del miraggio fatale della nuova Rivoluzione. La tempesta non gli spazzò via la disperazione e lui non poté capire quale ne fosse il frutto.
Così scendono dall’alto le mille cure del potere e l’occulto amore dell’eterno amico della morte.
Attualmente ci sono in Europa sette gradoni, dal quartiere al consiglio continentale; termitaio piramidale con mille stanze interne, poggiato sulla gente. Un numero incalcolabile di addetti alle Funzioni. La democrazia costa come il feudo, non dà respiro e ancora ha bisogno di crescere. Aborro immaginare il momento (imprevedibile al pari della repressione che provocherebbe) in cui diventasse critico il rapporto fra il tasso impositivo e il numero dei cittadini con poco da perdere. Chi dirà loro che nel labirinto il Minotauro non c’è[2]? Modo di morire ben noto agli imperi.
Se Libertà ci appartiene, da chi farla restituire? In quale prateria extraterritoriale rifugiare con la fragile Vergine?[3]

    [1]Anche i maggiori protagonisti della rivoluzione, allora, giudicavano poco importante (in ogni caso, non matura) questa scelta. Robespierre (alla vigilia del crollo monarchico): “Ho udito uomini, che non seppero mai far altro che calunniare il popolo e combattere le eguaglianze, parlare di repubblica. Preferisco vedere un’assemblea rappresentativa popolare e cittadini liberi e rispettati, con un re, che un popolo schiavo e avvilito sotto il potere di un senato aristocratico o di un dittatore. È forse nelle parole repubblica e monarchia che consiste la grande soluzione del problema sociale?”
[2] La mancata attenzione alla violenza connaturata nel prelievo fiscale (che già simboleggia l’assoggettamento), provoca inutile frattura e insofferenza. Pare che si consideri, il mancato pagamento, una ribellione, non già la difficoltà qual è. Il cittadino viene “affidato” al degno braccio secolare: l’esattore. Il metodo è minaccioso; e procede per moltiplicazione, l’aggravio aggiundvo. È anch’esso un businees. Il cittadino in sofferenza non può capire che la sua condizione possa costituire un affare per qualcuno. Come uscirne? se non nell’unico modo sensato: la riduzione numerica, riguardosa ma rapidamente effetfiva e parallela, all’osso, dei tribufi e dell’apparato. Temere lo sfolfimento occupazionale del parassitario è distorsione mentale, malattia demagogica e pratica immorale. La stessa perversione logica scatena la fiscalizzazione dissimulata dei servizi statali a pagamento, che non possono commisurarsi al reddito e sono quindi una pena in più per gli affaticati. Ma, poiché i servizi giustificano le tasse, se la macchina divora queste ultime, vanno pagate d’accapo o è meglio calmierare il suo consumo? La sola rivoluzione che abbia voluto il popolo – e unica vera fonte di libertà – è la pacifica razionalizzazione amministrativa: lo Stato sano e benevolo, con cui aspira naturalmente armonizzare.
[3] Allora ci sentiremo liberi: quando nessuno abuserà del nostro tempo.

EGALITÉ

Nacque dalla disperazione e dall’odio; percorse tutti i sentieri bui del sangue; tradì le menti illuminate, la Rivoluzione. Che uguaglianza poteva mai instaurare? Invece di creare giustizia, la sete d’uguaglianza, giustiziava.
Uguaglianza. Uno di quei sostantivi prestigiosi di cui è difficile concordare la sostanza, come i modi di farla venire al mondo. Chi l’invocava non ne aveva il ritratto. Che delusione, vedere affidarsi all’empirismo i colti repubblicani, cui non sfuggiva certo che la disputa sulle sorgenti veniva dal lontano Aristotele e s’imbrogliava nei secoli. Più se ne approfondisce l’analisi, a tutt’oggi, e più la materia sfugge. Uguaglianza e la sorella Giustizia hanno regno nell’etereo, eppur precisissimo, sentimento. Come è potuto sfuggire a Saint-Just?
I presupposti teorici c’erano tutti, ma servirono – e ancora servono – per incontrare il dramma della corruzione attuativa[4]. Chi non resta costernato, alla degenerazione dei propositi sinceri? Come gli altri figli di Rousseau, il “degno e incorruttibile” Massimiliano Robespierre partecipe dell’eguaglianza perfetta dei Rosati, difensore dei diritti misconosciuti, nemico – con Mirabeau – delle lettre de cachet[5], e osteggiatore della pena di morte, non trovò che le vie di perdizione del terribile giacobino, del subdolo terrorista dittatore Robespierre[6], trascinando con sé la plebe, infangando il popolo che credeva d’amare.
Gli uomini dotati e di grandi ambizioni perché s’arresero alle bassezze del potere e non seppero spingersi alla vera gloria di onorare i postulati? Perché la Pianura, la maggioranza, fu debole e tradì con la sua pavidità il mandato? Perché le voci sane non vinsero? Della Convenzione facevano parte un gran numero di intellettuali che avrebbero potuto agire con alta coscienza e imporre il vero trionfo dell’entusiasmante Trinomio. Invece furono succubi degli squilibrati, dei violenti, dei senza scrupoli, degli ipocriti feroci, degli amorali e dei corrotti. Ci lasciarono l’eredità di dover diffidare dei progetti belli e l’inclinazione alla resa. E tuttavia come è possibile che populisti radicati facciano oggi breccia nel generale disincanto e vedano la loro posizione, pressoché inutile, suffragrata? Quale legge non scritta impone il prevalere di quanto è più sordido, lasciando in noi permanente orrore?


[4] Montesquieu: “La virtù di una repubblica è l’amore per la repubbica; l’amore per la repubblica, in una democrazia, è quello per l’uguaglianza”.
[5] Le lettre de cachet erano dei mandati d’arresto firmati dal re, sulle quali il possessore aveva la facoltà di scrivere il nome di chi, a suo giudizio o comodo, andava imprigionato.
[6]Colui che scriveva all’amico Couton: “Purché non si scivoli nel dispotismo militare o dittatoriale. Nella situazione in cui siamo, è impossibile agli amici della libertà prevedere e dirigere gli avvenimanti.” mandò a morte persone care, come il giornalista Camillo Desmoulins, suo sostenitore, e la di lui moglie Lucilla Duplessis, alle cui nozze aveva fatto da testimone. Quando Robesbierre attraversava un momento critico all’opposizione, Desmoulins non esitava a pubblicare: “Non ti abbandonerò sulla breccia tra un nugolo di nemici! Gli sforzi di tutti questi falsi patrioti, accaniti oggi contro te solo, saranno contrastati da me: farò in modo di attirarmi il loro odio combattendo al tuo fianco, non per me, ma per la causa del popolo, dell’eguglianza, della costituzione!”. Il membro dell’assemblea, pur giacobino, Thuriot invano gridava: “Amo la libertà e la rivoluzione, ma se occorre un delitto per assicurarla preferirei pugnalarmi”. Perché poi non lo ha fatto? Avrebbe forse giovato. Non è colpevole fare certe affermazioni senza onorarle?

FRATERNITÉ

L’Amico del Popolo[7], invece di istigare alla rivolta e indicare i meritevoli di morte, avrebbe dovuto dichiarare come parte del popolo la classe che fino allora se ne distaccava. Pur nella volontà di rivolgimento, quel maestro del paradosso non era assistito dal necessario coefficiente di fantasia, per reclamare l’abbattimento di così forte barriera – quasi confine di specie – per mezzo dell’unico provvedimento capace di miscelare.
Piuttosto che attaccare la Bastiglia, il popolaccio avrebbe dovuto dare l’assalto alle principesse e all’altre titolate[8]. Gli sarebbe toccato fare la fila come sempre, ma con ben altra soddisfazione. Con la promozione di qualche buon bagno, ma d’acqua e sapone, si sarebbe fatto tanto buon sangue.
Quanto ai nobili, mettevano già incinte le popolane, ma senza colpo ferire, e senza aver turni da rispettare. Anche fraternizzando, è difficile essere uguali.
La Convenzione, dunque, avrebbe dovuto promulgare una generosa legge per promuovere i matrimoni fra gente di condizione diversa. E se proprio l’amore avesse obbligato una coppia ricca a chiedere clemenza in nome della soprannaturale predestinazione, essa avrebbe guadagnato la dispensa cedendo la metà del patrimonio congiunto: a un fondo per le coppie povere ugualmente avvinte dall’amore.
Per un po’ nessuno avrebbe potuto impedire dialoghi come questo:

Il fornaio alla contessa: – Perché mi tratti come un cane?
Contessa: – Perché sei un cane. 
Fornaio: – Povero il tuo cane!
Contessa: -Lui non è un cane: è una persona.

    Il fornaio, uomo dignitoso ma conoscitore della vita e di ben altre umiliazioni, credete che si sarebbe suicidato?
Col tempo, la figliolanza mista avrebbe forse indotto a provvidenze per i nati, e introdotto un’usanza che solo da poco, e in privilegiati paesi, è in vigore.


[7] Testata dell’ardito quotidiano di Gian Paolo Marat, montagnardo. “Amico del Popolo” divenne pure suo appellativo, per identificazione. “Il diritto di possedere deriva da quello di vivere; quindi tutto quanto è indispensabile alla nostra esistenza ci appartiene; e nulla di superfluo potrebbe appartenerci legittimamente, mentre altri mancano del necessario”. Benché egli nutrisse simpatia e stima per il re Luigi XVI, cosi scriveva: “Non già le calamità pubbliche, né i gemiti dei sudditi ridotti alla disperazione, turbano la sua tranquillità; egli è inquieto bensì, per le cattive condizioni delle sue finanze e il pensiero dell’esaurimento del Tesoro gli toglie la pace dell’animo”. Quantunque fosse stato amante di una marchesa e non fosse ostile all’istituzione monarchica, scriveva: “Tenete in ostaggio Luigi XVI, sua moglie, suo figlio, i suoi ministri, tutti i vostri infedeli rappresentanti, tutti i membri dell’antico governo e del nuovo, tutti i giudici venduti. Questi sono i traditori contro i quali la nazione deve esigere giustizia, quelli che essa deve immolare per primi alla salvezza pubblica”. E ancora: “Questo popolo non è istruito ed è molto difficile istruirlo; la cosa è anzi impossibile, mentre mille penne venali si sforzano di sviarlo per rimetterlo in catene”.
[8] Non ci hanno lontanamente pensato, per moralità. Infatti nessuno li ha mai rimproverati per questo e, di contro, ai ragazzi si è sempre insegnato a ammazzare. E l’argomento, se passa, qui passa appena per l’ironia

 

 

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