Implorazione a Ratzinger di proclamare l’inesistenza di alcun Dio e la necessità di superare la visione religiosa della realtà costituendo essa un errore che genera nella mente collettiva quegli altri errori e sistemi di errori interrelati che configurano il marasma politico, morale, economico, ed insomma culturale, che attanaglia l’umanità impedendole di giungere ad uno stadio della civiltà adatto a realizzare i grandi cambiamenti indispensabili per fermare l’alterazione ambientale, che altrimenti renderà in breve ardua e poi impossibile la nostra vita sul pianeta.
Quando, caro Ratzinger, accadde a me, unico uomo di cui sappia, di giungere a nuove forme del conoscere rispetto a tutto quanto già sapevo, occorse un solo istante. Anche se ci vollero ore, e poi mesi ed anni, perché quel processo si sviluppasse adeguatamente nella mia mente.
Fu nella tarda primavera del 1984. Eravamo a Napoli, al Corso Vittorio Emanuele, nella casa dove abitava allora Loredana, che avrei poi sposato in seconde nozze, e parlavamo di Louanne, mia moglie, dalla quale mi stavo dolorosamente separando.
Ho come dinanzi agli occhi Loredana, che è la donna più intelligente che abbia mai conosciuto ma anche una cuoca bravissima ed istintiva, allora una ragazza, mentre, rivolta alla cucina, rigirava in una padella, per la cena, dei peperoni rossi e gialli tagliati a strisce.
Durante i quindici anni precedenti avevo finito per cedere, così mi sembrava, all’immagine che Louanne mi aveva sempre dato di sé in funzione del nostro rapporto affettivo, e che un bel giorno, sopravvenuta la rottura, aveva cessato di rappresentarmi.
Mi ero così trovato dinanzi, esterrefatto, una persona che le assomigliava sì in maniera
impressionante, e di cui – mi ricordai in quell’indimenticabile istante – avevo a volte sospettato l’esistenza da qualche indizio, ma che parlava, si muoveva, si atteggiava in un modo da farmi escludere potesse essere lei.
Chi era dunque veramente, mi stavo chiedendo soprappensiero, quella bella, bionda, curata, elegante signora rassomigliante a mia moglie, che abitava insieme ai miei figli, quando Loredana, continuando a fissare i peperoni con il cucchiaio di legno in mano, disse sommessamente che l’idea che avevo avuto di Louanne non era che la visione antologica che avevo voluto averne, ovvero, in sostanza – mi sovvenne in un lampo – che avevo inventato il suo carattere traendolo dai luoghi comuni delle antologie della letteratura e glielo avevo imposto.
È in quel momento che venne a compimento il progetto che costituiva “inconsciamente”, da sempre, l’essenza della mia vita.
Quel progetto, il progetto di decodificare e riformulare l’ormai superato codice morale vigente, si era espresso in me, dalla mia prima infanzia, nelle forme di una profonda e generalizzata dissidenza, portandomi poi, man mano che la mia forza cresceva, ad uno scontro sempre più aperto con tutto quanto mi circondava, perché, per grandiosi che siano gli obiettivi di fondo degli uomini, essi non possono che passare attraverso il loro quotidiano.
Ora però il potenziale intellettuale accumulato in così tanto tempo era maturo.
Le nostre vite, i personaggi, gli apparati, i Parlamenti, le fasce sociali, le genti via via coinvolti dai miei scritti stavano per diventare il terreno di svolgimento del processo culturale che avrei fissato nei successivi venti anni nei miei dodici libri, e sarebbe poi stato, già da subito nonostante la finzione di massa di ignorarmi, trasfuso nelle sintesi che la società da allora continua e continuerà a farne fin quando non lo avrà definitivamente assimilato epurandolo dalle circostanze delle quali mi sono dovuto servire per viverlo, capirlo e narrarlo.
Quella sera, continuare a salvarmi a scapito degli altri mediante il chiudermi nelle varie visioni antologiche, a partire da quella che avevo di me, avrebbe implicato la negazione di tutti i miei affetti, ed inoltre non ne avevo più bisogno perché mi ero ormai appropriato della forza per affrontare l’inevitabile recriminazione sociale che il diversificarmi fino a quel punto avrebbe prodotto contro di me.
Fu così che nella mia testa iniziarono a dileguarsi gli artifizi, i filtri, le cortine, gli strategismi dietro le quali celavo quanto non avevo mai voluto vedere, ed iniziò quel processo che avrei poi definito la “scoperta antologica”, che è anche il titolo del libro che non potrò finire fin quando non sarà avvenuta l’omologazione sociale delle mie tesi.
Un processo che iniziò con la visione della “galleria dei personaggi antologici”, nella quale, una dopo l’altra, come delle colorate statue tuttavia vive ognuna nella sua nicchia, mi resi conto di avere lungo gli anni collocato, nelle posizioni che avevo voluto, le persone fondamentali della mia vita.
Un processo che proseguì con un viaggio senza precedenti nella mia mente che mi consentì poi di giungere alla comprensione del modo di formazione del pensiero, che ritengo sia la massima scoperta di tutti i tempi, perché la conoscenza del modo in cui gli uomini pensano darà loro la possibilità di decodificare ed organizzare ben diversamente il loro sapere, accedendo così ad un maggiore quanto indispensabile livello di civiltà.
Mente, caro Ratzinger – devo fare un breve accenno tecnico alla mia scoperta – che individuale o collettiva che sia, è un sistema in cui ognuna di quelle che ho definito “forme del conoscere” (pensieri, ricordi, idee, giudizi, pregiudizi ecc.) costituisce una struttura che può essere, nello stesso tempo, autonoma, presente in tutte le altre, e capace di contenere tutte le altre.
Ogni forma del conoscere è, cioè, una struttura in continua evoluzione che, raccolti in una forma piuttosto che un’altra (forme dettate dalle esigenze), e codificati in maniere tali da consentire la meccanica di cui sopra, contiene tutti i dati derivanti da una certa esperienza particolare, ma anche tutti i dati contenuti nelle altre forme del conoscere derivanti dalle altre infinite esperienze. “Dati” che sono poi essi stessi delle forme del conoscere.
Fermo restando che in ogni forma del conoscere si avrà la prevalenza di certe connotazioni anziché altre (specializzazione), ognuna potrà così rimpicciolirsi fino a divenire impercettibile, irrigidirsi fino a divenire dominante o prevalente, estendersi fino a comprendere tutte le altre di cui è costituita l’intera mente, specializzarsi fino ad assumere una qualità di presenza anziché un’altra, organizzarsi fino a “sembrare” presente senza esserlo o fino ad essere presente senza “sembrarlo”, e così via in un numero infinito di modalità della presenza e della partecipazione.
Processi che naturalmente si svolgeranno secondo le ordinarie regole della chimica e della fisica, per cui ogni modifica avrà i suoi tempi tecnici e sarà caratterizzata da un certo numero di problemi, limiti, sofferenze, eccetera, in alcuni casi superabili ed in altri no.
Complessi ed articolati processi e strutture che implicano necessariamente, ed eccoci al punto, che ogni errore produca altri errori e sistemi di errori interrelati all’infinito, e che quando l’errore sia tanto grave e dominante come quello religioso alteri profondamente le menti nel loro complesso.
In definitiva, la grande confusione che vanifica gli sforzi delle genti dinanzi alle problematiche della modernità, dalla crisi morale, economica ed occupazionale alla disarmonia fra i popoli e fra i popoli e l’ambiente, è causata dal radicamento nella mente dell’uomo dell’idea che esista l’inesistente, ovvero Dio, i Santi, i miracoli, l’inferno, il purgatorio, il paradiso e così via.
Inferno, purgatorio e paradiso che, peraltro, scusami ma è incredibile, sono assenti dalla Bibbia, perché il fondatore dell’idea di inferno, purgatorio e paradiso poi adottata dalla chiesa è Dante con la Divina Commedia.
Cose che – bada bene – solo oggi, essendo superate, si configurano come delle follie, giacché sono state disegnate via via, lungo i millenni, in virtù di precise esigenze della società umana.
Follie che sarebbero quindi comunque sconfitte dalla civiltà dei prossimi decenni, ma occorre invece sconfiggere al più presto perché il grado di confusione che creano nella cultura rende l’umanità incapace di reagire con la necessaria velocità ai mali che l’annienterebbero; dal che l’urgenza di affacciarti al balcone e proclamare l’inesistenza di alcun Dio.
D’altra parte la religiosità si esaurisce ormai per lo più in alcuni rituali di massa suscitati da campagne televisive e giornalistiche così imponenti da poter generare il culto di qualsiasi cosa, ma ha cessato da decenni di essere elemento sostanziale della vita sociale per il semplice fatto che nessuno vorrebbe più una società gravata da vere connotazioni religiose. E, più che le chiese vuote o la crisi della vocazioni, lo testimonia la radicale laicità del quotidiano.
E l’apparente rinascita religiosa è dovuta unicamente al fatto che la collettività, poiché non solo non vuole il cambiamento ma è anzi atterrita dalla sua inevitabilità, si stringe al cattolicesimo in quanto nucleo centrale dell’occidentalesimo; ovvero solo per invocare, molto più materialisticamente di quanto non sembri, la conservazione.
Una conservazione dell’occidentalesimo che equivale ad una conservazione del consumismo al quale l’occidentalesimo si è ridotto, e mira anche a contrastare le altre religioni, ed in particolare l’incombente islamismo.
Una guerra fra “religioni” nella quale l’unico vero “Dio” è come al solito il consumo (il consumismo è la subordinazione dell’uomo alle logiche produttive anziché delle logiche produttive all’uomo), e nella quale mi auguro le forze laiche vorranno schierarsi in favore della ragione, perché se “sembrano” ora rivolte a quel Dio che hanno sempre negato è solo perché anch’esse sono atterrite dall’ineludibilità del cambiamento; oltre, naturalmente, che per ovvie esigenze elettorali.
Sempre senza dimenticare che, laici o non laici, il tasso di religiosità reale è modestissimo, ed i soli valori di cui è certa un’ampia diffusione sono l’indifferenza, il cinismo, il degrado morale, ed altri nessuno dei quali sembra sia espressione dei dieci comandamenti.
Una religiosità che ciascuno accomoda ai suoi gusti trascurando che sia il cattolicesimo che le altre religioni hanno i loro codici, e diversificarsene, specie quando, come oggi accade, tutti esagerano, è tecnicamente eresia.
Una mille tragicomiche eresie di massa che hanno sì, come già detto, la loro ragione di fondo nell’intento di raccogliersi intorno alla religiosità per conservatorismo, ma non tengono conto del fatto che, mai come questa volta, il conservatorismo non è destinato a salvaguardare il passato, ma ad accelerarne la distruzione.
Se infatti i cinesi stanno per invaderci con i loro prodotti e gli extracomunitari con le loro sventure, o, bquel che è peggio, se i venti, le onde, i geli o le calure mettono sempre più a rischio la nostra vita, volerci difendere conservandoci per quello che siamo sarebbe la strategia più stolta.
Tanto più che il potenziale intellettuale dell’uomo moderno è immenso, sicché un “chiarimento delle idee” mediante il “giungere a nuove forme del conoscere rispetto a tutto quanto già sappiamo”, ci renderebbe capaci di risolvere con sia pur relativa facilità qualsiasi problema.
Non ti interessano le mie teorie psicanalitiche? Ti sembra che in ogni caso non c’è niente di male se, in tanto sfacelo, la gente cerca conforto nell’idea che Dio esiste e li ascolta?
Ma che bravo!.. A questo punto devo innanzitutto dirti che se le mie teorie sono fondate questo continuare a far finta di nulla è un crimine contro l’umanità, e sono fondate perché sono tutte di tipo “autodimostrativo”, ovvero dimostrate dalle parole stesse con le quali le svolgo.
Spero poi di non aver parlato tanto invano quanto quello che dici farebbe credere, e che i miei argomenti abbiano invece aperto un varco nella tua mente, perché ti sbagli caro Ratzinger: c’è invece un male enorme, giacché ti ribadisco che questa religiosità, che è scevra da ogni ingenuità, quando è nata era motivata da precise esigenze che ora non sussistono più, sussistendone tutt’altre rispetto alle quali essa è ostativa.
Inoltre, potrà essere sconsolante che tutto debba finire con la nostra fine, essere amaro cessare di immaginare che i nostri cari ci attendano in cielo, essere tragico che di fronte alla terribilità degli eventi non ci sia nessuno a cui rivolgere le nostre invocazioni, ma se è così, ed ovviamente è così, credere diversamente è un’illusione che induce una devianza in tutte le scelte della nostra vita pubblica e privata.
Anzi, a questo punto, visto che sei un uomo di cultura, vediamo se ti convince la mia ricostruzione dalle origini ai giorni nostri.
La cultura e la religione delle origini, vedi, non poterono che essere naturalistico / aristocratiche, perché appunto aristocratiche sono le regole della natura dalla quale scaturirono e nella quale si svilupparono.
Attraverso l’aristocrazismo naturalistico (il paganesimo), l’uomo giunse così a livelli espressivi tuttora insuperati.
Tanto splendore ebbe però un prezzo: nel paganesimo la prevaricazione delle aristocrazie giunse fino alla condanna della massa all’inesistenza ideologica.
Scrive infatti Omero nell’ottavo secolo prima di Cristo, riferendosi alla guerra di Troia (dodicesimo secolo): “…entrò in campo Achille, o Ulisse, o Ettore, …e sterminò i nemici…”, mentre è ovvio che ad entrare in campo erano in realtà le loro schiere.
Una prevaricatorietà che, se nella cultura greca fu sdrammatizzata da un certo coefficiente di “democraticità”, altrove, ed in particolare in Egitto, degenerò in un verticismo tanto implacabile da causare il sintetizzarsi di un’eccezionale aggregazione di uomini intorno all’intuizione di valore incalcolabile che, qualunque cosa gli fosse costato, da quel momento si sarebbero per sempre auto determinati.
Era il tredicesimo secolo, e quel nucleo di uomini erano gli ebrei che, al seguito di Mosè, si sarebbero lanciati nell’attraversamento del deserto…
Un “deserto”, quello biblico, che simbolizza l’ammaliante deserto di valori dal quale iniziava la loro lunga marcia ideologica, perché essi, fuggiti dai valori, fondamentalmente epici, del paganesimo, non avevano ancora consolidato i valori alternativi dell’entusiasmante, magnifica cultura che avevano appena inventato: la democrazia ugualitaria di massa.
Un ugualitarismo che difenderanno con una determinazione infinita, che sovente sarà scambiata nei secoli per settarismo, e costerà loro alla fine l’orrore dell’olocausto ad opera della depravazione pseudo aristocratica del nazi – fascismo.
Un ugualitarismo che avrebbe trovato il suo codice morale nel vecchio e nel nuovo testamento, e che richiese, quale prima, indispensabile operazione culturale, che il Dio venisse rimosso dalle carni degli eroi e dalle cose della natura – nelle quali lo avevano collocato i pagani – e relegato nella metafisica.
Questo perché un Dio che albergasse nella fisica li avrebbe ovviamente riportati alle regole della natura, ovvero all’aristocrazismo dal quale erano fuggiti.
Relegato invece il Dio (Jahvè) nella metafisica, gli si sarebbero potute attribuire liberamente tutte le connotazioni e le regole che le loro umanissime esigenze avessero suggerito.
Prima fra tutte, coerentemente all’affermazione dei valori della solidarietà, fu infatti l’imposizione al Dio della “manna dal cielo”, e cioè del dover sostenere anche coloro che, per i loro limiti o per gli accidenti della vita, non fossero in grado di provvedervi da soli, ovvero il principio assistenzialistico, che è poi il tessuto connettivo di fondo di ogni ordinamento giuridico civile.
Un Dio, Jahvè, che altri non era che la loro “mente collettiva”, ovvero la loro cultura, ovvero il modo che avevano mediato di dover avere in comune nel vedere la realtà.
Ma i secoli passarono, e la società ebraica, non riuscendo a far derivare dal suo straordinario umanesimo un livello di civiltà proporzionato, vedeva profilarsi sempre più il rischio di cadere in una spirale involutiva.
Finché, per non soccombere, quella stessa società che aveva saputo negare il potere faraonico, dovrà piegarsi e dire a Jahvè: “Vogliamo un re su di noi per essere anche noi come tutti gli altri popoli. Il nostro re ci governerà, sarà lui che marcerà avanti a noi e combatterà le nostre guerre”.
Ma quel popolo eccezionale volle tentare di attenuare quella sconfitta ricorrendo ad un artifizio: anziché un re vero, un uomo cioè portatore di un’autentica diversità positiva, individuò, per adattarlo alla concezione di massa, un re nel quale, come si direbbe oggi, …tutti invece potessero identificarsi…
Era l’undicesimo secolo. Quel re fu Saul, e non appena la sua inadeguatezza produsse i suoi effetti, la massa stessa, come sempre nella storia dell’uomo, innescò con facilità i processi rivolti a far sì che gli eventi lo fagocitassero.
Un po’ con le sue stesse forze, ed un po’ spinto dal crescente bisogno che la società ebraica aveva del suo contributo, si fece allora pian piano strada il primo vero re, ed anzi il fondatore del regno d’Israele: Davide!
Ma perché mai, nel bel mezzo di quel popolo di bruni, Davide, da sempre, è raffigurato come biondo?
Ebbene, è raffigurato come biondo perché appunto lo era. …Non di capelli però, bensì di concezione: egli era cioè “biondo” come il biondo Ulisse, il biondo Achille, i biondi Achei, ed insomma i biondi eroi indoeuropei della tradizione aristocratico pagana di Omero.
Quando insomma il bisogno di un vero re divenne ineluttabile, la cultura ebraica dovette rassegnarsi a rivolgersi ad un uomo animato dai valori della tradizione aristocratica.
Salvo che quel re non sarebbe più stato il rappresentante di un’aristocrazia, ma avrebbe dovuto porre il suo valore al servizio del popolo: un cambiamento di portata ancora una volta incalcolabile, anche se produsse un nuovo tipo di classismo attraverso la nascita della nobiltà, che è cosa ben diversa dall’aristocrazia: argomento che non ho qui lo spazio di approfondire, ma che ho trattato ampiamente in “da Ar a Sir”.
Quanto all’aristocrazismo ed all’epicità di Davide non ci sono dubbi: egli uccide il leone afferrandolo per il pelo della mascella, non ha esitazioni ad affrontare Golia, ed è finanche legato a Gionata, figlio di Saul, da un’ “omosessualità” del tipo di quella che legava gli eroi greci.
Un’omosessualità aliena, nel suo modello ideale, dalla fisicità, e fondata sulla comunione di intendimenti e sentimenti eroici che si sviluppava sui campi di battaglia nell’esercizio e nel culto dell’epica.
Dopo Davide verrà Salomone, suo figlio: l’uomo con il quale nascerà l’arte ebraica, l’uomo che costruirà il grande tempio, l’uomo cardine della cultura e della religione ebraica, e nello stesso tempo l’uomo che, con il suo paganesimo, ne violerà tutti i principi fondamentali.
L’ebraismo era infatti monogamico, ma Salomone ebbe 700 mogli e 300 concubine; era monoteistico, ma le sue 1.000 donne erano pagane; era fondato sull’ugualitarismo, la modestia e la parsimonia, ma egli ebbe 40.000 cavalli.
Ciononostante, a riprova del fatto che la radice della morale è nelle esigenze, il mondo ebraico lo amerà e lo terrà per sempre nella più grande considerazione.
Ma c’è anche qualcun altro che, da due millenni, viene rappresentato come biondo. Un uomo di un livello sapienziale e di una così struggente e sublime passione umanitaria che le sue parole illumineranno i millenni.
Un uomo questa volta straordinario e rivoluzionario al punto che i suoi contemporanei preferiranno relegarlo nella metafisica in quanto Dio pur di non doversi sottoporre all’impegno che il suo messaggio implicava e di non dover sopportare la gelosia che suscitava in loro la sua inenarrabile qualità di uomo.
La sua grandezza sarà infatti proclamata solo dopo alcuni decenni dalla sua morte: solo quando, cioè, attraverso il nuovo testamento, il suo messaggio, un messaggio orale, sarà stato profondamente modificato per adattarlo alla morale metafisica di massa.
Tuttavia, a tratti, nel nuovo testamento, rifulge tra le righe l’espressione di un livello sapienziale eccezionale che non si saprebbe a chi altri attribuire se non a Cristo, perché non era mai appartenuto prima all’ebraismo, così come non apparterrà mai dopo né all’ebraismo né al cristianesimo cattolico e non.
Dice infatti Cristo con una delle pochissime espressioni sicuramente sue di fronte all’imminente lapidazione dell’adultera: “…Chi è senza peccato scagli la prima pietra!”.
Parole con cui manifesta di conoscere la soluzione del contrasto fra aristocrazismo e democraticità, perché con esse, pur riconoscendo a chi sia senza peccato (“superiore”) addirittura il diritto di uccidere, contemporaneamente glielo nega, perché nessuno è senza peccato.
Un provocatorio enigma di cui né l’ebraismo né il cristianesimo vorranno mai capire la soluzione, perché quelle parole invitavano in realtà al superamento della distinzione fra buoni e cattivi (paradiso ed inferno), in favore della distinzione fra bene e male.
Cosa questa che avrebbe trasformato la lotta fra gli uomini in una lotta interiore fra il bene e il male di cui ciascuno è portatore.
Un enigma che nessuna cultura ha voluto finora sciogliere perché la distinzione fra buoni e cattivi è funzionale alla conservazione in generale ed alla conservazione delle classi in particolare.
Un’esigenza, quella della conservazione, che ha sempre prodotto le forme più bieche di repressione, ma che non va comunque sottovalutata perché è indispensabile per l’equilibrio fra la necessità di conservare l’esistente e quella di cambiarlo nei limiti di quanto occorre.
…Intanto, nell’ottavo secolo, dopo aver vagato per circa quattro secoli dopo la distruzione di Troia, ed essere divenuto un modello di carità sotto l’influsso della cultura di massa, era approdato nel Lazio il pio Enea, che, dalla confluenza dell’aristocrazismo greco pagano e del concettualesimo ebraico di massa, aveva fondato la cultura occidentale, ovvero Roma.
Il che, se si pensa che Enea era portatore di tradizioni asiatiche, europee e mediterranee; che gli Achei distruttori di Troia, pur essendo di origini indoeuropee, erano profondamente mediterranei; che l’ebraismo era stato per tutti loro l’elemento di frustrazione, ma anche l’alternativa culturale attraverso cui ritrovare una forma sociale, e che il Lazio era accogliente e centrale, si vedrà che la Storia, nel formulare e nel collocare geograficamente l’occidentalesimo, tenne conto proprio di tutto.
Occidentalesimo al quale il cristianesimo e l’ebraismo daranno poi un enorme contributo, ma il cui originario codice dei valori sarà l’Eneide, scritta da Virgilio pochi anni prima di morire, il 19 prima di Cristo.
Eneide che non avrebbe avuto né lo splendore dell’Iliade e dell’Odissea, i codici aristocratico pagani del divino Omero, che in certi passi non si riesce a leggere senza frenare un impeto di pianto, né la forza non meno commovente del veridico umanesimo biblico, ma sarebbe stata comunque “vigente” per tredici secoli.
Tredici secoli allo scadere dei quali Dante, attraverso il magnifico espediente dei gironi del bene e del male, avrebbe, sempre nell’ambito dell’occidentalesimo, percorso la vecchia morale e codificato la nuova, scrivendo, con la Divina Commedia, il codice dei valori della società borghese nel mondo.
Un codice ora superato specie a causa dell’industrializzazione – massimo evento positivo mai verificatosi nella storia dell’universo conosciuto – e dei non altrettanto positivi fenomeni dovuti alla sua cattiva utilizzazione.
Occidentalesimo che in duemilasettecento anni colonizzerà culturalmente il centro ed il nord Italia, l’Europa, il Nord America, l’Australia eccetera, ma non il Sud Italia e la Sicilia che, a partire da cinquanta chilometri a nord di Napoli, gli rivolgeranno contro un’eterna dissidenza dovuta ad una particolare sintesi fra aristocrazismo e democraticità che costituisce, a mio avviso, la massima cultura del pianeta.
Venendo a noi, oggi – nel mentre è indispensabile un nuovo codice dei valori, perché, oltre all’aristocrazismo, è ormai definitivamente superato anche l’attuale stadio della democrazia – la società si è insabbiata in una nuova fase di Saul.
Saul che non sapranno mai creare una statualità moderna capace, secondo la mia definizione di sussidiarietà, di dirimere e ricondurre a ricchezza pubblica il conflitto eterno fra l’esigenza di dover sottostare a regole generali, imprescindibile per la collettività, e quella di esprimersi liberamente ottenendone il più possibile, irrinunciabile per gli individui.
Siamo insomma in un era in cui, data la tecnologia, è facile risolvere i problemi, ma per innescare una nuova fase dello sviluppo è necessaria una scintilla che l’attuale stadio della cultura di massa non può esprimere, perché è il frutto del suo superamento.
Se vuole vedere quella scintilla la collettività deve accettare che i Saul non sanno maneggiare la pietra focaia dalla quale essa può scaturire.
Cordialità,