Giuseppe Campolo: COPYRIGHT ALLA REGINA
«Mi domando da che cosa, da che meccanismo mentale, da quale interesse, coscientemente attivo o coerente e nascosto, proviene l’ammirazione per la cultura tibetana. Che interesse o quale romantica debolezza spinge a idealizzare la figura del Lama in esilio, a cui si riservano onori in tutto l’occidente cristiano, benché egli affermi e sia accreditato come il Budda vivente. Le alte sfere ecclesiali, giusto per la loro competenza teologica, non avranno certo sottovalutato l’incompatibilità delle due religioni, malgrado l’abitudine ai cristianesimi: il cattolicesimo, e poi il luteranesimo, il calvinismo, l’anglicanesimo, il valdismo, il pentecostalismo, e tutte le altre chiese ortodosse e copte e ogni altro rivolo, i cristianesimi, dunque, sono tutti – e intendo dire: ognuno è – l’unica vera fede. Non basta? Perché tanta benevolenza per un credo così lontano ed esclusivo ed estremamente dogmatico? Lo si invidia proprio per queste caratteristiche di monopolio delle menti e delle coscienze, possesso così desiderato e mai veramente raggiunto, benché perseguito con ogni mezzo, in occidente?» Poi aggiunse, ammiccando e mostrando i palmi delle mani: «È così». Che è il suo modo di benedire urbi et orbi.
Così mi parlava, qualche sera prima di entrare in sala operatoria, il barone D. di C., mio unico amico nobile rimastomi, giacché l’altro, di M., è così altezzoso che bisbiglia di sé, come per un segreto misterico, la parola noooble; e disdegna discutere, suggerendomi il ritiro con penna e carta, a riva, in aspettativa dei miei romanzi. Inoltre, il Principe è morto, scombinando tutto. Le serate di dispute storiche con i Dodici sono ormai finite da tempo. Il dibattito più acceso correva fra il principe e il prof. L. del liceo classico, insegnante di storia e ricercatore eminente. Con chi, quest’ultimo, avrebbe potuto dibattere ancora con tale gusto? Io mi limitavo, quasi esclusivamente, ad ascoltare; gli altri, pur cultori di storia, non avevano la verve di loro due, tranne il barone di cui ora ti parlo, che però non trovava ormai che valesse la pena far quaranta chilometri per incontri che avevano perduto l’anima ispiratrice e anche la splendida sede in cui si tenevano, per non parlare dei beveraggi. Una volta, il barone, parlando di lui, mi disse: «Chissà che fine avrà fatto il suo Archivio di Stato? Che peccato che tu non l’abbia visto! Forse gli eredi lo stanno vendendo a pezzi. Tutti gli eredi di Casate stanno alienando le tenute, per farne speculazioni edilizie, e trasformando i palazzi in alberghi, andando a vivere in appartamenti di città, mimetizzandosi. È il loro contributo alla moda repubblicana. È così».
«Con il Principe abbiamo perduto un vero uomo di spirito, che avrebbe dato un sapore di divertimento anche al nostro immaginare,» mi disse, ancora convalescente, quando già facevamo ipotesi di complotto, tra le risatine e il serio cogitare. Anche senza il Principe ci stavamo divertendo, noi due, palleggiando l’impossibile, storicamente e umanamente parlando. Ma era quasi l’ora di pranzo, e la moglie si presentò alla soglia con grazioso sorriso e occhi fulminanti. Non so che sospetto avesse su di me; sicuramente non vedeva di buon occhio che suo marito mi frequentasse. Mi tranquillizzai pensando che, semplicemente, ella non desiderava che venisse distolto dalla famiglia, perché fuori di essa non c’è nulla di buono.
Credevo ormai finito quel gioco, ed ero già dedito a quelli più consueti, quando un pomeriggio lui mi mandò un messaggio su WhatsApp: “Sono un po’ libero, ti vengo a trovare?”. E ricominciammo la partita, se così posso dire.
«Sei sicuro,» esordì, «di voler sprecare una così bella idea di romanzo? Altro che Dan Brown!». Egli pensa sempre che scriverò un best seller, prima o poi. Ma io so che non basta scriverlo. L’ho già scritto! Perciò risposi: «E non è altrettanto affascinante, anzi di più, applicare la fantasia nella realtà e vedere come la gente improvvisa personaggi sul nostro canovaccio?»
«Vorrai dire: il tuo!»
«Voglio dire: il nostro, ora.» La brillante intelligenza, duttile e accogliente, è accompagnata in lui da una stupefacente modestia. Non è esattamente modestia, la direi piuttosto innocenza: egli non sa, non lo sa affatto, di quali capacità sia dotato. Non ha idea della sua capacità intuitiva, per esempio. Io amo il suo bell’argomentare.
«Un bel problema scegliere il palazzo!» dice, molto perplesso, con sorridente mimica che chiede venia.
«Un’oasi, tende beduine e palme circondate dal deserto?» propongo incerto.
«O un posto sconosciuto sul mare. Oppure uno già di per sé sicuro: Cremlino? Palazzo dell’ONU? Ma no, Nazioni di prima e seconda categoria, no! UNESCO? Oppure: Vaticano!» Praticamente pensava ad alta voce.
«Potremmo proporlo all’Ecumenico, no? Un Conclave Massimo. Gli piacerebbe: passerebbe alla Storia con qualcosa di meglio che la Santa Inquisizione.» Pare che io ce l’abbia sempre con la Santa Inquisizione, divento monotono e mi dà una brutta aria livida, che a lui non piace affatto, ché è perdoniero. Credevo di esserlo pure io, ma la gente non si ricorda niente! Poi gli domando accomodante: «Ti riceverebbe facilmente, in privato?».
«Complicato, ma ho una cugina che vanta una parentela diretta con Santa Maria Cristina di Savoia, e anche lei è molto ecumenica; potrei provarci. Ma il Vaticano è la sede adatta? Ricordati di quel vescovo Emmanuel Milingo, qull’antipapa senza il coraggio di esserlo, che aveva osato sposarsi e ordinato sacerdoti e vescovi, che poi capitolò miseramente e fu fatto sparire.»
«Dici che il nostro conclave lì sarebbe sicuro, ma si potrebbe sostenere in seguito che non sia mai avvenuto per sparizione di massa?» Ridiamo.
Aggiunge: «Guarda che scherzavo: Milingo vive tuttora in Corea, a quanto ne so. Avrà rinunciato al voler cambiare la Chiesa, ecco tutto. A parte che la nostra fumata bianca avrebbe troppo sapore di intrighi. Sconsiglio il Vaticano!» Avrà avuto ragione, ma io ero scontento.
«Peccato,» dico. «Dopotutto è un posto in cui gli alloggi non mancano, non manca la segretezza e nemmeno l’ampia navata per accogliere i circa mille e seicento capoccia.» Sparo una cifra, fra noi siamo abituati a spararle.
«Quello che mi piace, in quest’idea, è che la sua follia è pari alla fattibilità. Basta convincere una sola persona, e tutto il modo cambia. Mai vista una cosa del genere… È facile a parole, però.» È stata l’ultima frase che disse. E ci lasciammo desolati.
Non gli telefono mai. Temo la presenza della moglie, alta, dritta, bella e diffidente. Mando timidi messaggi: “E la regina?”.
Della regina parlammo su una panchina di piazza duomo, gelato in mano, come altri parlano del più e del meno.
«La monarchia, in Inghilterra, non cade perché, con tanta democrazia concessa, i sudditi non si potrebbero adattare alla tirannia della repubblica, esercitata sui loro privilegi. Parlo anche del privilegio di gridare l’eroico motto: Dio salvi la Regina! Da lì viene tutta la loro spocchia, non lo sottovalutare: è enfatico, entusiasmante, orecchiabile. La musica fa miracoli. In battaglia campale si andava con la musica, per restare morti in diecimila.» Ma la distaccata soavità con cui lo dice creder non la puote chi non la vede.
«Se ti riceve, però, dico anch’io: Viva la Regina!»
«Ci deve ricevere tutti e due. Io, da solo, non glielo vado a proporre. Gli parlerai tu.»
«Sì, col mio inglese! Io parlo appena l’italiano.»
«Non preoccuparti, tu parla, a tradurre ci penso io.»
Somigliavamo a quelli che fantasticano, per sognare un po’, di come rapinare la zecca di Stato. Tanto ci pensano, che alla fine, parendogli quasi un gioco, si ritrovano in pigiama a strisce nella casa circondariale.
Così noi, d’estate, a scrutini chiusi, col consenso della regina e biglietti di prima classe pagati da lei, prendemmo un volo da Fontanarossa per London City Airport.
Come a un barone di Sicilia cedessero i portoni di Buchingham Palace e si piegassero tutte le ben pettinate teste al suo passaggio è legge che stupisce; ma sbalordisce che la regina, florida di anni, assisa nel suo studio privato, si alzasse e, dopo uno sguardo felino a me, venisse incontro tutta lieta, ma verso il suo amico che abbracciò e baciò come si fa tra mortali.
Sedettero vicino, io all’apice del triangolo isoscele formato dai loro sguardi.
«Maestà,» mi toccò cominciare, «Ella, come me, si rende conto che mai spontaneamente le Nazioni smetterebbero la fabbricazione delle armi, né mai scioglierebbero gli eserciti, per governare in armonia il pianeta. Tuttavia sappiamo che, rispetto a qualsiasi conquistatore bellicoso, Magno che sia stato, maggior gloria si attribuisce a Federico II di Svevia, ammansatore degli astore e stupor mundi, il più pacifico dei re, imperatore che in Sicilia regnò nel Tredicesimo secolo e fu scomunicato perché, invece di compiere lo sterminio dei mussulmani, negoziò e ottenne la restituzione pacifica della Terra Santa. La sua sposa, su cui fu riflessa magnificenza, era pur d’Inghilterra la Isabella, benché Plantageneta».
Il mio amico traduceva ogni mia frase, ma non credo affatto che lo facesse alla lettera. Egli ben conosceva le buone maniere. E per quel poco che intendo d’inglese, specie nell’amalgama di London-City, non mi parve che menzionasse l’astore, rapace che dà orgoglioso nome agli Asburgo.
«L’aviazione inglese ha raso al suolo Messina, la città più bombardata d’Italia nella seconda guerra mondiale. In braccio a mia madre, io c’ero. Si deplora sempre la ferocia soldatesca contro la popolazione civile, ma gli eserciti sono anch’essi popolazione civile: coartata. E il delitto maggiore non è quello di esporla a morte, quanto di obbligarla ad assassinare e distruggere, violando sia il diritto alla vita che alla proprietà. Non vengo, però, a far protesta, ma ad offrirne, da nessuno comandato se non dallo spirito di Federico e di tutta la cultura che ne discende, il nostro olocausto per la Pace, che dico Universale, al Regnante che ciò bene intende.»
Ella aveva lo stesso sorriso del mio amico o il mio amico il suo, incoraggiante e curioso: le radici antiche sanno come far sbilanciare e poi far vacillare gli arditi che fanno un passo o alzano lo sguardo.
«Sacra Maestà,» continuai, «la strategia degli interessi non può essere convertita, né i perversi intrecci sciolti con la persuasione: occorre un imperio, o Madonna Elisabetta. E un vero ordine si dà de visu». Non compresi perché, a questo punto, si fecero entrambi seri e drizzarono più ancora la schiena. Ma credetti ugualmente di avere l’asso nella manica.
«C’è forse un Capo di Stato, per repubblicano o comunista che sia, il quale non troverebbe gratificante per sé essere invitato alla Vostra Residenza? Invitateli tutti, Signora nostra, nessuno escluso, grandi e piccoli, a un colloquio privato e segreto. Ma fate in modo che ognuno pensi di essere il solo, l’esclusivamente scelto. Avrà un bel da fare la Sua Cancelleria.»
Il barone D, interloqui, per la prima volta di suo: «Il primo ministro Boris Johnson ha fatto introdurre nelle scuole di Londra il latino, inizio eccellente (riporto le sue parole) per comprendere la struttura della lingua. Che la sua conoscenza non sia limitata soltanto a chi ha avuto il privilegio di un’educazione privata». Pareva che l’amico mio, con questa uscita, avesse dato una dimostrazione inconfutabile di qualche teorema; e io non avevo abbastanza intelligenza per capirne prontamente il senso e soprattutto il nesso con quanto si stava dicendo. Risposi affrettatamente, sconsideratamente o fortunosamente, non so, certamente spiazzato. Seppi dir questo: «Ora l’Italia è messa in un bel pasticcio! Ha mandato in esilio il latino, da decenni; introdurlo di nuovo ora, sarebbe una dichiarazione di imbecillità. Per apparire più avanti, non ha altra via decorosa che adottare l’Esperanto! Ecco, Regina, vengo qui appunto nel segno dell’universalità di questa lingua, oltre che della serena Cultura.» Mi parve veder tornare un accenno di sorriso. Purtuttavia rimasi scettico sulla felice scelta della mia frase.
Avevo bisogno di prendere fiato, anzi, di scappare. Ma, come se avesse capito, la regina fece servire il tè. Di quella sala-studio non vedevo nulla, né mobili né pareti, benché ora tutto mi sia presente alla mente. Mi ipnotizzava la tazza di tè. Ti farò ridere: mi è parso di bere brodo di pollo, anche il profumo era quello. È per dirti quanto ero stranito.
Il barone mi tradusse la breve frase e ordine perentorio della regina, che purtroppo avevo già capito: «Dite dunque quello che dovrei fare, secondo voi!». E divennero, entrambi, statue di marmo.
«Sequestrarli tutti, Maestà! Capi di Stato e Capi di Stato Maggiore. Per il bene dei loro popoli e per la Vostra Gloria. Stupor mundi, Voi stessa. Trattateli come i bambini discoli che sono, teneteli senza cena, fate loro servire solo acqua di pozzo. E al terzo giorno, lauto pranzo; e poi riceveteli, assisa nella Vostra Sala da Ballo di Stato, alle cui pareti, uno accanto all’altro, ci saranno, disarmati, Vostri ufficiali delle tre armi, quanti ne avete. Tre file di essi, dietro a Voi. E, nella camera retrostante, un corpo speciale ben armato.» Mi alzai, forse per prendere fiato o per non esplodere. Proseguii con una voce profonda e calma quale non avevo mai osato liberare in vita mia, che mi sorprese ma stranamente mi diede una forza sovrana. «O muore la vecchia Terra, a cominciare dall’esecuzione di tutti i maggiorenti chiamati e riuniti a Palazzo, muore a causa di un conflitto veramente mondiale, in cui Londra, per prima, sarà bombardata, da ogni direzione, come Messina ma da bombe atomiche; o nascerà la Nuova Terra e il Nuovo Cielo: un Trattato Globale, per cui popoli, lingue e culture saranno rispettate e tenute per sacre in tutti i secoli a venire.»
Da dieci anni, ormai, sono ridotto in clausura, in un appartamento con sontuoso letto matrimoniale in camera, studio e salotto, mobili la cui personalità prepotente mi schiaccia, quadri fiamminghi alle pareti, un bagno con idromassaggio per quattro persone. Ironia che sono sempre solo, tranne una visita segreta, rada e irregolare, negli ultimi sei anni, mio unico conforto, non so se per generosità del destino o della regina; se chiedo notizie, si allontana e non torna per molto tempo. Libri quanti ne voglio e in italiano, ma niente giornali, televisione o radio: il futuro, per me, si è fermato al giorno della regina. Mi chiudono dall’esterno, non ci sono chiavi alle porte. Il rancio è squisito, vario e inglese, in vasellame di preziosa porcellana. Sono servito da mute giubbe rosse che nemmeno mi guardano. Entrano ed escono, bussando ma non attendendo che risponda. Metto una grossa sedia dietro la porta, quando sono in bagno. Sembra che io sia affidato all’Arcivescovo di Canterbury. Una volta era il braccio secolare a occuparsi di questi affari, ma ora, almeno in Inghilterra, è viceversa. Non ne capisco nemmeno uno, dei simboli nelle piastrelle del pavimento.
Non posso rivelare, caro Sam, a chi sono in procinto di affidare questo scritto, che spero divulgherai, facendomi così in qualche modo evadere. Voi, sperati lettori, ve ne stupireste, se ne rivelassi nome e rango, la regina no: i monarchi non fanno una piega, ma prendono brutti provvedimenti. A meno che, quest’opportunità di comunicare, non sia l’inganno consueto, in beffardo regalo, ai prigionieri.
Dov’è il mio amico? Ai baroni, in una monarchia, è riservata sorte migliore? Vedo il sospettoso occhio di sua moglie, preveggente, che mi maledice.
È stato tutto inutile, l’idea eretica?
Che male avrei fatto alla regina?
La regina vive ancora?
Che ne è del mondo?
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