FISCO E SPESA PUBBLICA PER IL BENE COMUNE di Antonella Giordano

Le evidenze statistiche sul sommerso economico e sull’evasione fiscale confermano che tali fenomeni rappresentano il peggiore deterrente all’ottimizzazione di un sistema Paese fondato su equità e produttività. Sommerso ed evasione fiscale non sono assolutamente sinonimi perché si riferiscono a fattispecie che producono effetti diversi (e non solo nelle rilevazioni contabili). L’economia sommersa è parte  dell’economia non osservata e l’evasione fiscale è  collegata all’occultamento di basi imponibili generate dall’impiego di fattori di produzione (il sommerso economico). L’economia non osservata comprende, in teoria, anche le attività illegali che ad oggi non sono valutate dall’Istat e che quindi non rientrano nel computo del Pil.

Il trend di crescita dell’evasione fiscale parallelamente alla crescita della pressione fiscale che, malgrado la intensificazione dei controlli, colloca il nostro Paese in maglia nera nel contesto internazionale non può essere sicuramente negato ma, in un’ottica di comparazione internazionale con altri Stati, merita di essere ridimensionato nei termini di analisi. L’Italia è lo stato nel quale l’organismo deputato alle stime statistiche, l’Istat, fotografando la situazione del sommerso con puntualità consente la possibilità di “diagnosi”e la misurazione annuale ufficiale a differenza dei tanti Stati  che  non forniscono alcuna informazione sul fenomeno, sebbene il medesimo debba essere valutato, in ottemperanza agli obblighi comunitari, secondo gli standard statistici internazionali .

Basti considerare che la stessa virtuosa Germania, additata come modello di eupolitica finanziaria, non fornisce alcuna indicazione sulla frazione di economia sommersa inclusa nel suo prodotto interno lordo.

Sappiamo che imposte e tasse sono necessarie per finanziare i servizi offerti dallo Stato centrale e dalle amministrazioni locali e per effettuare  gli investimenti pubblici ma sappiamo anche che l’entità della pretesa fiscale della pubblica amministrazione è determinata, nel medio lungo termine, dall’ampiezza della spesa pubblica secondo l’equazione spend and tax (contrapposta alla tax and spend di matrice liberale) in ossequio alla quale  per poter ridurre le tasse bisogna prima  ridurre le spese.

Ma cosa accade quando le pretese del fisco raggiungono livelli elevati? Accade che i contribuenti che possono evadere optano per uscire dal sistema dell’economia legale per rifugiarsi nel sommerso mentre i contribuenti che per qualche ragione non possono o non riescono ad evadere restano stritolati dalla pressione fiscale e rifiutano  di partecipare all’attività produttiva. Sono questi coloro che, in numero sempre crescente, perdono la fiducia nel livello di efficienza e qualità della spesa pubblica nel convincimento all’aumento degli oneri imposti dalla fiscalità generale non corrispondano migliori servizi sociali, sistemi previdenziali, investimenti per infrastrutture e tecnologie, politiche fiscali redistributive.

 Si depaupera così il concetto di bene pubblico. Le manovre di finanza pubblica e gli interventi diretti alla rimodulazione della spesa rischiano di conseguire risultati trascurabili se si disconoscono i valori della res pubblica confondendoli con quelli della  res nullius, in nome dei quali i “contribuenti” decidono di occultare i redditi verso enclaves sommerse e di  non rispettare le obbligazioni tributarie e contributive derivanti dalla propria attività produttiva.

In Italia gli investimenti piuttosto che essere indirizzati in infrastrutture fisiche e immateriali, in ricerca e sviluppo e per compensare l’ascesa delle prestazioni pensionistiche e la domanda di servizi sociali, continuano ad essere diretti a coprire il debito pubblico cumulato negli anni. Uno sviluppo sostenibile che tenga conto del diverso sviluppo territoriale è fortemente inibito dalla difficoltà di coprirne i costi con le risorse provenienti dalla leva fiscale.

Il ridimensionamento strategico, attraverso l’attuazione della spending-review, del sistema organizzativo ridurrebbe sprechi e inefficienze riqualificando le singole finalità su cui è articolato il conto delle amministrazioni pubbliche: ciò dovrebbe far uscire il Paese dalla situazione entropica del momento.

Perché gli obbiettivi dei piani di spesa pubblica non restino suggestioni è necessario andare oltre il saldo del bilancio pubblico dettato dall’impostazione virtuosa ed equilibrata della finanza pubblica, e considerare che la conduzione della finanza pubblica deve porsi l’obiettivo di ridisegnare l’area dell’intervento pubblico.

La spending review  in nome di un’etica pubblica condivisa è una soluzione di natura economica e, quindi, non può essere limitata alla lotta agli sprechi e ai privilegi ma deve riaffermare i valori della res pubblica che impongono, tra l’altro, che tutti debbano pagare le tasse. Pagare tutti perché si possa tutti pagar meno porterà ad una riduzione delle pretese fiscali e del tasso di sommerso e di evasione.

In Italia, la frazione di Pil dovuta al sommerso economico è pari al 18%, come ha denunciato il presidente della Corte dei Conti lo scorso giugno  in un intervento alla Camera in occasione della Giornata della Giustizia tributaria, cui ha partecipato anche il Capo dello Stato.

Il valore della  pressione fiscale (data dal rapporto tra gettito e Pil) è di pochi punti percentuali al di sotto del 50% e se da questo rapporto togliamo la parte di Pil che non paga imposte otteniamo che la pressione fiscale effettiva o legale (ossia quella che mediamente è sopportata da un euro di prodotto legalmente e totalmente dichiarato in Italia) va ben oltre  il 55% (cioè il più elevato valore registrato nella storia economica patria recente e, nel contempo, un record mondiale assoluto).

Già nel  2008 l’Italia presentava un tasso di sommerso più che doppio rispetto al Regno Unito (8,1%), tra cinque e sei volte il tasso di sommerso francese (3,9%), otto volte il tasso di sommerso stimato per il Canada.

Osservando i dati degli anni passati, per i quali è presente qualche informazione utilizzabile, solo per Messico e Spagna si hanno tassi così rilevanti di economia sommersa ma pur sempre inferiori  rispetto ai valori italiani.

I dati degli Stati del Nord Europa risalgono ai primi anni 2000 e sono parametri lungi dall’essere eguagliati. L’Italia si posiziona sopra le medie europee per pressione fiscale  mentre nel corso degli anni 2000-2012 la grande maggioranza dei paesi Ocse ha ridotto il peso fiscale sui propri contribuenti.

I Paesi nord-europei, caratterizzati da uno  Stato sociale funzionante, hanno ridotto la pressione fiscale apparente: di 6,3 punti la Svezia, di 4 la Finlandia, di 2,8 la Danimarca.

Lasciando in disparte i Paesi piccoli come Cipro e Malta, oppure i Paesi dell’Est come la Polonia, che comunque hanno livelli molto ridotti della pressione fiscale (ancora oggi sotto il 35%), gli unici paesi europei “grandi” che hanno innalzato il prelievo sono stati il Portogallo, di 3 punti, la Francia, di quattro decimi, l’Italia, di 3,4 punti (European Commission (2010), Monitoring tax revenues and tax reforms in EU Member States).

Forse dovrebbe far riflettere  il fatto che la maggior parte delle economie avanzate negli ultimi decenni hanno adottato strategie diverse dalla nostra per fare fronte ai tanti problemi di crescita, di equità, di benessere dei loro cittadini.

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