Presentazione a Palermo di “Chi ha conosciuto Bosco Nedelcovic?” e “Annuvolata”

Giuseppe Campolo: Conferenza del 30 maggio 2013 a Palermo

Ci suggeriscono questo mondo essenzialmente fatto di dare e avere, tuttavia non mancano persone che non si arrendono all’azzeramento dell’animo umano. Persone che lavorano, tutti i giorni e senza compenso, per opporsi al degrado culturale, ai sentimenti sempre più bassi, alla propaganda della disperazione. Persone che reagiscono al quotidiano attentato all’umanità, senza piegarsi mai.
Mi trovo davanti a signore e signori colti, dunque a lettori. Statistiche alla mano, alcuni di voi scrivono. E riconosco alcuni librai. Ho qualcosa da dire ai lettori, agli scrittori e ai librai.
Ai lettori: opponetevi al monopolio culturale. Leggete quel che volete, i libri pubblicizzati, quelli che vanno di moda, si può leggere di tutto; ma non leggete soltanto ciò che vogliono i dominatori del mercato, non scartate a priori ciò che non è proposto dalla grande distribuzione e dalla colossale industria dell’editoria. Essi promuovono ciò che è omologato, coerente al regime e alla strategia mercantilista; non possono che affiancare e attuare il progetto monopolistico del globo.
Agli scrittori dico: non credete a quelli che vogliono dimezzare la vostra fantasia dicendovi che si deve scrivere per tutti cioè in modo semplice, perché altrimenti siete narcisisti e antidemocratici. Vi stanno suggerendo di suicidarvi! L’arte non è cosa semplice, è quanto di più complicato e sofisticato possa esserci. Vogliono asfissiare le menti di tutti con le banalità, le vogliono fare morire di inedia con l’assenza del pensiero. Scrivete per quelli che vi somigliano, almeno sarete sinceri. Si è passata la voce che un libro profondo e complesso non si vende. Ma un libro non si vende soltanto perché non c’è qualcuno che vuole venderlo, perché non arriva nelle mani dei lettori, perché i critici non guardano che i libri passati loro ben “incartati” dai grossi editori. Essi non leggono altro, e sono i primi traditori della letteratura e della cultura.
Ai librai dico: vi comprendo. L’editoria è malata di dissenteria. Come potreste individuare il buono fra tanta melma? Tanto vale vendere ciò che la gente vuole, e vuole ciò che la pubblicità vuole, e la pubblicità vuole quello che ai potenti garba. Ma dico ancora: voi avete pure una responsabilità, sia pure parziale, verso la cultura, verso la civiltà. Vi scongiuro, pensateci.
“Chi ha conosciuto Bosco Nedelcovic?” è l’ultima mia esperienza narrativa, ma le sue radici sono antiche. Risalgono a quando cominciai ad interrogarmi sulle cause della violenza. Ponevo un quesito elementare: la conflittualità è congenita alla natura umana, oppure è una risposta di adattamento? È credenza pressoché generale che sia vera la prima ipotesi. Se dunque l’aggressività è un istinto, si deve pure ammettere che ci sono istinti opposti come il desiderio di vivere in armonia, l’anelito all’amicizia. Sono degli opposti animi che non si possono contemporaneamente attuare, ed è quindi evidente che sono assoggettati a una scelta. Mi è parso a un certo punto evidente, visto quanto esprime la società, che la nostra scelta non è totalmente libera e ho avuto la certezza che qualcosa di sbagliato è nella impostazione sociale di fondo, che inquina le nostre menti e ci fa agire, singolarmente e collettivamente, contro noi stessi.
Ci ripugna abbandonare per sempre la dimensione terrestre e tutto ciò che il nostro corpo ci permette di percepire. Persino la chiesa cattolica, che respinge la reincarnazione, perché non può ammettere il concetto evolutivo che ne è implicato, non si spinge fino al punto di separarci per sempre dal nostro corpo: ce lo ridà alla fine dei tempi. Cosa un po’ strana per la verità, perché è difficile concepire la corporalità scissa dalla temporalità.
Nella suggestiva ipotesi che l’anima s’incarna ripetutamente, nessuno di noi può essere sicuro che nelle vite precedenti non è mai caduto in battaglia, non è stato scannato dalla fazione avversa, impiccato o dato al rogo. E nessuno altresì può pensare di non aver mai tradito, ucciso, commesso atrocità e ingiustizie. Non ricordare le vite passate è necessaria autodifesa, condizione indispensabile per non sentirsi indegni di vivere.
E se anche ciò non sia, se cioè l’esperienza su questa terra è unica e non ha appello, non è meno grave, ma più grave. Con la nostra passività stiamo accettando definitivamente l’ingiustizia e la prepotenza, la spietatezza e la viltà; stiamo abbandonando la nostra progenie nelle mani dei signori della guerra, della finanza e dei miserabili prestanome di quello che si chiama potere. E tutti gli errori nostri diventano errori senza riscatto.
Pensando queste cose, a sprazzi, pur nell’applicazione paziente al quotidiano lavoro, ho avuto una nausea crescente, nella quale affonda le radici il romanzo Annuvolata. Nausea del processo storico. Storia d’inganni. Storia di distorta direzione della mente. Storia di apparenti ma artatamente consolidate verità. La tirannia della verità, accreditata e riconosciuta, è la più potente delle tirannie.
Ci sono vocaboli il cui significato più proprio è deturpato da connotazioni storiche, moralistiche e oppressive. Una di queste parole è “eresia”. Etimologicamente: “scelta”. Si contrappone dunque a essere obbligati, a restare fermi e cristallizzati. L’eresia equivale, nella sfera mentale, al salto darwiniano, al drastico discostarsi, dall’esistente, che la forza evolutiva attua; è strumento primario di creazione. Creare i mondi è un atto eretico estremo: l’opposizione al nulla! La vita stessa è eresia. Eresia equivale alla ribellione adolescenziale, ribellione essenziale affinché l’essere possa tentare nuove strade. Eretica è ogni teoria nuova nel campo scientifico. Ogni vero scienziato è un eretico, rispetto a ciò che la scienza ufficiale accetta. Ma per essere eretici, prima di poter spezzare cioè le catene del già dato, occorre frantumare lo schema consolidato della propria mente e scoprire lo sgomento dello spazio aperto. Poche parole sono state tradite come eresia. L’eresia è un motore di ricerca mentale.
Quel che scrivevo negli anni, non era che questa lenta maturazione e il tentativo sempre più cosciente di affrancare la mia mente. Il romanzo Annuvolata è eresia pura. La rivolta contro la pochezza imposta, contro l’impossibilità dell’innocenza, contro la necessità o l’obbligo della formazione. È stato detto che Annuvolata è un romanzo di formazione. Ma il romanzo di formazione descrive il processo di adattamento dell’individuo alle modalità sociali. Annuvolata invece è il romanzo della critica radicale, dell’anti-formazione (categoria narrativa ancora non codificata!). È il trionfo del non adattamento. Di più: è il risanamento del mondo per mezzo della volontà umana. Annuvolata culmina con un diluvio divertente, che non fa stragi ma è benefico, che nessuna divinità impone come castigo, ma è un diluvio rinnovatore che l’uomo determina per porre definitivo rimedio agli errori umani e comporre le contraddizioni della creazione. Metafora, solo apparentemente blasfema, affidata alla vostra intelligenza e duttilità mentale.

Ecco come comincia il diluvio di Annuvolata:

“Meditando l’essenza minerale, come vapore levitai nell’aria densa e molle. Il fiume scorreva dentro la mia spina dorsale in un silenzio d’acque profonde. Ormeggiai alla cima d’un castagno sfiorandone con l’alluce la foglia, tornando gradito ai passeri e al merlo ch’ebbe l’ingenua impertinenza di trovar comodo l’inguine. Il pastorale venticello che zufolava tre le fronde, arpeggiava, del pari, tra i miei metallici capelli distesi come i raggi del sole.
Una magra nuvola languiva in cielo, sfilacciata dai tesi orizzonti, consunta d’attesa. Non la raggiunsero gli aquiloni dell’infanzia, dipinti di bianco per maggiore insidia, con le lunghe e inanellate code. Purché l’avessi presa, sarei stato dolcissimo col filo. L’avrei tirata giù con la cautela del pescatore, con la maggiore cautela del pescatore del cielo. Ora la nuvola si stirò un poco e un poco si voltò nella luce, negando che il tempo abbia un ritmo. Sorpreso, il merlo si buttò in picchiata virante, spaventando, dei volatili, persino gli insetti. Nel mezzogiorno in punto, l’aria era deserta e vuota, persino di rumori. S’era affacciata, e subito nascosta, un’altra nuvola da dietro il monte Cavallo. Salpai, nel fermo gorgo che s’innalzava alla nuvola e in alto la sosteneva, voluttuoso gigante, con mani di cristallo.
Il fiume cominciò a fluire nel mio petto in un’indistinta musica, che poi riconobbi. Una versione del Bolero di Ravel per acqua metafisica. Atomi di bioro esalavano dalle mie mani e da tutto il mio corpo espanso; polline cominciò a zampillare e diritto ascendere, attraverso canali di luce, per impregnare la nuvola, che si risentì e si ravvolse. S’arrotolò e poi ristette.
Sedetti in fisiologica distrazione, vagando con lo sguardo indifferente a ogni cosa; e, pertanto, non potrei dire di essere stato testimone, pur non negandone la responsabilità, dal momento che la nuvola mostrò al mondo la sua gravidanza. Raggiunto dalla sua ombra, m’avvvidi che aveva preso colore e, soprattutto, s’era gonfiata oltre misura, sovrastando tutta la tenuta e oltre, fino alle montagne e poi là fino al mare, invadendo tutto l’emisfero celeste…”

Senza Annuvolata, non ci sarebbe stato “Chi ha conosciuto Bosco Nedelcovic?”.

L’azione liberatrice eretica, azione sostanzialmente mentale, che un tempo veniva brutalmente repressa, oggi è resa innocua, deviandola in confini ristretti e sfruttandola. Lo status quo ante bellum è permanante. Un esempio di splendida eresia, resa innocua e sfruttata, è il volontariato. Soccorrere i bisognosi è una protesta che dovrebbe far tremare il potere, gestore di immense fortune in modo talmente perverso che determina la povertà, povertà che dovrebbe scongiurare.
Ma l’eresia principe è la collaborazione. Questa società è fondata sulla contrapposizione, sulla competizione e l’appartenenza, passati come valori. Le fazioni sono istituzionalizzate, a qualsiasi livello. Tale incultura è accettata acriticamente come termine democratico. Le nazioni che si ammantano di prestigio fanno stoccaggio di morte utilizzando risorse incalcolabili sottratte alla mensa dei popoli, piangono false lacrime sui volti devastati dei fanciulli affamati e morenti, attribuendo la responsabilità al destino ingrato, per affidarli all’accattonaggio pubblico organizzato. Ci sono medici che lasciano opulenti ospedali per offrirsi là dove urge il bisogno. Un enorme numero di cittadini sostituisce le istituzioni con il proprio sacrificio e si è giunti al punto che il volontariato non pare più una protesta, un estremo rimedio di cittadini in rivolta, ma una delle istituzioni, un’appendice, un merito del potere.
Il romanzo “Chi ha conosciuto Bosco Nedelcovic?” attua la sua eresia sul piano del procedimento letterario, fondendo talenti e intenti, e sui piani psicologici e sociali, per vie fantastiche e allusive. È la ricerca della donna ideale, della società ideale, dei rapporti dolci e privi d’ogni violenza, dell’armonia, del superamento dei confini psichici e mentali.
Il protagonista del romanzo non è tanto Bosco, dove figura come patriarca di riferimento, modello eretico. Cito una descrizione che ne fa Sandrina:

«Non era un impostore, ma un essenzialista. Quel circolo, come ogni stadio della sua vita, era un esperimento. Egli voleva provare ogni sua ipotesi, approfondire ogni interrogativo. È stata una stagione felice, ma non so se si trattasse della natura umana che si esprimeva o quella di Bosco che s’imponeva. Per me era il frutto della sua fantasia magica. Comunque sia, una notte mi sussurrò: “E tuttavia anche questo è destinato a morte”. Considerava spreco insensato e indegno lo sfiorire della bellezza, delitto l’appassire dell’intelligenza e lo scomparire delle emozioni, “i tesori incalcolabili”. Concepire un così orribile avvicendamento, lui sosteneva, non può significare che la malriuscita di un’opera, continuamente da rimpastare.»

Il vero protagonista è Samideano. Egli, dunque, è un eretico senza veemenza, trattosi fuori da ogni lotta, che vive in una casa fra i boschi, nostalgico di una donna trasgressiva e limpida, Sandrina, che alla fine ritrova e raggiunge, e del cui sposalizio delle anime voglio leggervi un brevissimo passo. Samideano è il primo qui a parlare:

«Sembrerà banale sindrome della luce interiore, ma in quel segmento di tempo, che dopotutto possiamo considerare breve, trovai conferma evidente e nitide dimostrazioni delle più estreme teorie di dominio occulto, con convinzione finale di schiavitù planetaria già attuata. Se, a quel punto, io avessi dovuto lavorare per sostentarmi, avrei preferito l’inedia a morte. Fermai il lavoro, mi ritirai, ripensando spesso alla miseria di chi fatica per se stesso e mi sembrò ignobile sopravvivere a quel prezzo.» Sandrina rotolò, di mezzo giro, alla seconda stazione ierogamica, e mormorò: «Mio Bosco».

E più avanti, ancora Samideano:

«Per quale prodigio è immediata e vasta l’adesione a tutto ciò che è vuoto e meschino? Ma che farnetico? Dovrei dire: a tutto ciò che ci danneggia, ci insulta, ci immiserisce. Come mai appare nobile l’impostura, spacciata per intento benefico, e progetti risolutivi non trovano sostegno? I fantocci gesticolano da grandi eroi, senza attuare mai il diritto delle genti al pane. E l’esperanto? Bosco, alla fine, considerò destinato a morte anche l’esperanto? E tu? Soltanto un’elite indomabile lo coltiva, vedi? È una buona cosa, perciò repelle! Ma dovrebbe essere portato a colazione la mattina, insieme al latte. Bandiera di fratellanza, rifiuto del conflitto e della prepotenza, ostacolo alla sopraffazione, cattedrale del razionalismo; e cosa accade? Quelle parole che le madri dovrebbero sussurrare teneramente ai bimbi sin dalla culla, che sono parole di tutti gli uomini sublimate in amore, sono commiserate come un’utopia fallimentare. Non ce l’ho con gli inglesi, mi fanno rabbia i colonizzati contenti; non mi irritano i percorsi grigi, quanto i piedi che li calpestano; non muovo una parola contro i distruttori del raffinato lavoro artigiano, ma sono severo con noi: lo abbiamo permesso e non comprendiamo che è una colpa.» Sandrina conosceva questo stadio, ma era ugualmente commossa. Avvolgeva Samideano con la sua aura, lo acquietava invadendolo con la sua dolce essenza. «Caro, sospendere il lavoro è un’importante attività. Essa viene dopo la visione ed è l’inizio della trasmutazione. Sii perciò lieto, o benvenuto fra i testimoni della speranza».

Tutte le lingue hanno contorte storie d’arte, di sangue e di gloria, coniate nei secoli da popoli che, tutti, hanno dato all’umanità immensi contributi di civiltà, pur attraversando bufere di violenza da protagonisti attivi o succubi. Popoli e lingue degni ognuno di essere conosciuti e amati e commiserati.
Ma c’è una sola lingua dell’innocenza. Non evoca sopraffazioni e brutalità; ha una storia di pace e di speranza. L’Esperanto nacque dal desiderio di placare i conflitti, dalla genialità, dalla fede negli esseri umani e nella superiore civiltà a venire di Ludwik Lejzer Zamenhof, poco più di un secolo fa. Migliaia e poi milioni di persone in tutto il mondo la coltivano, la sviluppano, scrivono poesie e romanzi, cantano per il futuro.
L’Esperanto è il seme dell’armonia, l’eresia suprema del ribaltamento culturale, dal conflittuale al cooperativo, che cambierà il senso di questo mondo e renderà limpida la figura dell’uomo. È il diluvio a venire. Siamo eretici, radicalmente eretici! Scateniamo il diluvio!
Ora voglio dirvi qualcosa di più pacato sull’Esperanto.
È la lingua più semplice che ci sia e al contempo la più duttile e la più armonica. È un teorema perfetto, matematico, geometrico. Ha sedici regole grammaticali. Non ha eccezioni, si legge come si scrive, la possono imparare tutti. È fatta per sconfiggere la babele, per dare la possibilità a tutti gli uomini di comprendersi.
Si dice: “Abbiamo l’inglese”. Occorrono molti anni per impararlo e occorre anche un po’ di denaro. Quanti dopo averlo studiato a scuola potrebbero parlare alla pari con un londinese o un americano? La verità è che non abbiamo l’inglese; saremo sempre stranieri rispetto all’inglese. Presto occorrerà il cinese, e saremo sempre noi a essere stranieri. Vedete, non sto mettendo più in conto la dimensione ideale. L’Esperanto è fatto per fare intendere tutti gli uomini con il minimo sforzo.
L’esperanto non è fondato sulle parole, non occorre un immenso vocabolario, perché è fondato sulle radici. Tutte le radici adottate sono le più universalmente condivise, sicché ha qualcosa di familiare per tutti i popoli. Con semplici regole, dalle radici si formano le parole. Si impara anche da autodidatti, con l’ausilio di un semplice manuale. Ancora più facile è impararlo con un insegnante, è ovvio, ed è anche più confortevole. E non occorre denaro, gli insegnanti sono volontari, filantropi pieni di fede.
L’indefesso e duro lavoro de l’UEA (Universala Esperanto-Asocio – Associazione Mondiale per l’Esperanto) ne ha guadagnato un grande prestigio internazionale, l’ufficiale relazione con l’ONU e l’Unesco come associazione non governativa, e ai cui lavori partecipa con propri delegati. L’Esperanto è proposto come lingua della Comunità Europea, e così sarà. Gli esperantisti nel mondo sono milioni, un intero popolo. E numerosi sono gli organismi internazionali importanti e vari, operanti in ogni campo dello scibile e delle attività umane.
Questo è detto per tutti coloro che cercano di propagare l’idea che la lingua universale Esperanto sia solo un fatto utopico privo di prospettive. Non credete a chi ne parla con sufficienza. Seguireste persona già condizionata e indurita nichilista! L’Esperanto è la palingenesi razionalista dell’umanità responsabile.