Nella tradizione Rom, vigeva la regola che i figli si fanno sempre nascere, e poi si possono anche rifiutare, lasciandoli alla nonna o a chi, di buona volontà nel clan, si offra di provvedere per loro.
Fu così che Danka, quando venne alla luce nel settimo mese di gestazione, fu affidata alla nonna materna.
La famiglia dove Danka sarebbe vissuta con la nonna Viviane, lo zio materno Ugo, la moglie di lui Violeta e Norka, la loro figlia, di solo pochi mesi più grande, in una roulotte dell’ insediamento alle porte di Bucaterest.
Crescevano insieme le due bimbe, l’affetto della nonna compensava in parte il vuoto che Danka provava quando, sua zia Violeta, coccolava la piccola Norka.
Danka si dimostrò subito una bimba dall’intelligenza vivace e dotata di una profonda sensibilità; sempre riconoscente per quello che riceveva, un debito verso tutti che riteneva di dover pagare.
Non poteva accettare di essere stata rifiutata, si proteggeva creando con la fantasia intrighi terribili e fantasiosi che avevano, non senza grande sofferenza, costretto la sua giovane mamma, all’abbandono.
La cuginetta Norka era una bellissima bambina dai capelli color del grano maturo e grandi occhi azzurri sul visino da bambola.
Non reggeva al confronto, Danka, piccola e magra, pelle olivastra, capelli colore della notte, “un animaletto con gli occhi da diavolo” la definiva la zia. Occhi antracite con pagliuzze dorate che guizzavano come pesciolini quando sorrideva ma che diventavano saette infuocate se subiva un rimprovero, una punizione non meritata.
Non si ribellava, non si difendeva, ma i suoi occhi esprimevano bene quello che provava: un’orgogliosa sfida verso l’ingiustizia che le veniva fatta e per questo la zia la detestava.
Quando le cuginette iniziarono la scuola elementare, Danka entrò subito nelle simpatie della maestra per la sua voglia di imparare. Norka arrancava con fatica tra libri e quaderni, mentre Danka otteneva ottimi risultati senza grande sforzo.
Negli anni che seguirono i risultati scolastici non lasciavano dubbi: Danka era portata naturalmente per lo studio, Norka al contrario preferiva giocare.
Forse per giustificare la figlia o per invidia dei risultati della nipote oppure semplicemente perché era analfabeta, zia Violeta cercava di convincere la suocera e il marito dell’inutilità della scuola, la considerava una perdita di tempo, si lamentava di aver bisogno di aiuto nei lavori domestici e che niente di buono le bambine avrebbero ottenuto.
All’inizio della quinta elementare, Danka ebbe il menarca, momento che segnava il passaggio dall’età infantile a quella adulta; la zia pretese di fatto l’abbandono della scuola per la nipote.
Alle proteste di Danka la zia l’accusò che il suo interesse fosse unicamente per i ragazzi e non per la scuola, insinuando che intrattenesse con loro relazioni intime.
La verginità era un valore assoluto e Danka si sentiva ferita e umiliata dalle insinuazioni e dalle parole durissime che riceveva.
Lo zio e la nonna non presero posizione, temevano le ire di Violeta e, per il quieto vivere non si opposero.
I rapporti con la zia nei due anni che seguirono furono per Danka di paziente sopportazione, i lavori più umili erano tutti per lei. Un mattino, dopo aver preparato il caffè alla turca, mentre raccoglieva le tazze, Danka fu attratta dai fondi di caffè nella tazza della zia e, sorpresa, vi lesse chiaro un messaggio: “Zia Violeta, i fondi mi dicono che andrai in ospedale entro sette giorni, subirai un’operazione alla pancia, starai molto male ma poi guarirai e starai bene. Non ti devi preoccupare.”
La zia andò su tutte le furie, buttò la tazza per terra, picchiò Danka riempiendola di insulti e accusandola di volerle fare il malocchio.
Disperata Danka si rifugiò dalla nonna chiedendole di quale colpa si fosse macchiata.
La nonna la rassicurò e le disse che la capacità di leggere i fondi di caffè è un dono che hanno le persone speciali, nate come lei settimine.
Accadde che dopo sette giorni zia Violeta fu ricoverata effettivamente di urgenza in ospedale per una peritonite, rischiò di morire e dopo una lunga convalescenza tornò alla vita di sempre.
La zia non cambiò atteggiamento nei confronti della nipote, denigrandola ogni qualvolta ne aveva occasione. Si rodeva dalla rabbia perchè molte persone si rivolgevano a Danka, dopo aver appreso come aveva predetto il ricovero e l’esito dell’intervento.
Danka era felice, credeva veramente di poter essere utile agli altri, dispiaciuta che nella sua di tazza, non le appariva mai nulla di leggibile.
Arrivò l’estate e con essa la notizia che si sarebbero recati in Italia, ospiti di una comunità rom di Torino.
Il fine del viaggio era il matrimonio di Norka con il figlio di un’influente famiglia rom di quella comunità.
Lo sposo aveva anch’esso 14 anni; è tradizione millenaria tra i rom il matrimonio tra minori. Nessuno dei due promessi si conosceva, questo poco importava, il matrimonio era stato deciso da tempo tra le due famiglie.
Norka aveva accettato la volontà dei genitori, non si sarebbe mai opposta a quello che riteneva suo dovere e si preparò al viaggio con l’incosciente entusiasmo della sua età.
Danka, obbligata anch’essa a partire in vece della nonna Viviane, era tormentata da un brutto presentimento: la paura che da quel viaggio non sarebbe più ritornata. Dei suoi timori poteva parlarne solo con la nonna, che volle così tranquillizzarla:
“Non preoccuparti, sarà un’esperienza indimenticabile, sii contenta per tua cugina, io sono vecchia, sei sempre così attenta a quanto intorno a te succede, al ritorno sarà bellissimo per me ascoltarti, mi racconterai proprio tutto, ne sono certa.”
Danka non si sentì per nulla rassicurata, per quanto si sforzasse di partecipare ai preparativi per il viaggio mostrandosi serena, i suoi occhi restavano tristi.
Zia Violeta interpretò quella tristezza come invidia verso la cugina e non le risparmiò commenti cattivi, come dare per scontato che mai avrebbe trovato qualcuno disposto a sposarla perché era magra, brutta e sicuramente non più vergine.
Al momento della partenza, Danka abbracciò la nonna con lo strazio di un definitivo addio.
Il viaggio durò parecchi giorni, si fermavano in altri insediamenti mentre la carovana di roulotte si allungava sempre più; il matrimonio era davvero importante e tantissimi sarebbero stati gli ospiti.
Non si era mai allontanata dal luogo dove era nata e viaggiando per paesi nuovi che andavano via via attraversando, la sua naturale curiosità, leniva in parte la tristezza della partenza.
Arrivarono a Torino in un caldo, tardo pomeriggio di agosto; stanchi per il lungo viaggio non ci fu per nessuno il tempo per riposare. Quella sera stessa si sarebbero riunite le famiglie e finalmente anche i promessi sposi si sarebbero conosciuti.
Intorno a un grande tavolo, la cena fu servita in silenzio da sole donne, riservata ai familiari di Norka e di Steven e agli anziani del clan Steven, così si chiamava il nubendo.
Il campo prima affollato e chiassoso era diventato improvvisamente silenzioso e deserto.
Folti riccioli neri, olivatra la pelle, solo un’accenno di barba sul viso da adolescente, bianchissimi i denti, Steven indossava pantaloni bianchi di stoffa lucida, camicia bianca aperta sul petto, fascia di raso anch’esso bianco più volte avvolta intorno ai fianchi, giacchino corto nero e una candida rosa puntata sul risvolto.
Norka era bellissima, i biondi capelli sciolti sulle spalle scoperte, una camicetta azzurra come i suoi occhi, una gonna anch’essa azzurra che le arrivava alle caviglie, orecchini pendenti, collana e bracciali d’oro finemente lavorati. Una principessa, pensò Danka e quando incrociò casualmente lo sguardo di Steven si sentì brutta e insignificante e da quel momento non alzò più gli occhi dalla tavola.
Non prestava attenzione ai discorsi, solo un mormorio indistinto di voci, si sentiva un’intrusa e non spiccicò nemmeno una parola, solo qualche cenno del capo alle donne che servivano al tavolo.
Alla fine della cena Steven, il promesso futuro sposo, si alzò in piedi e disse:
“È quella la ragazza che voglio sposare,” indicando Danka.
Ci fu un silenzio di tomba, come se la vita si fosse fermata, rotto dalle urla di Violeta e dal pianto di Norka,
Danka non riusciva a capire nulla, era la più sconvolta d tutti.
Il capo clan diede ordine di allontanare le due ragazze e le donne, perché gli uomini dovevano discutere della difficile situazione che si era creata.
Danka restò sveglia tutta la notte, non riusciva a dare un senso a nulla. Quali sarebbero state le conseguenze di quanto era successo?
Come affrontare le ire di sua zia Violeta che, come sempre, l’avrebbe ritenuta responsabile? Avrebbe detto a tutti che lei era una persona malvagia, una strega che leggeva i fondi di caffè, artefice del maleficio che aveva sicuramente colpito Steven.
Pensieri catastrofizzanti, solo quelli riusciva a concepire e, se non fosse stato per il dolore che avrebbe arrecato alla sua nonna, si sarebbe uccisa quella notte stessa.
Al mattino, svuotata dai tormenti della notte, quando arrivò lo zio Ugo, restò in attesa rassegnata della pena che le sarebbe stata inflitta.
“È stato deciso: tu sposerai Steven, solo però se sei vergine resterà valido il matrimonio, altrimenti sarai subito ripudiata e nessun altro uomo ti vorra.”
Incredula e stordita, lei sarebbe stata la sposa? Se fosse stata vergine? Ancora quel dubbio su di lei, era stanca di quelle insinuazioni e per puntiglio disse di sì, avrebbe così dimostrato a tutta la comunità quanto bugiarda fosse zia Violeta.
Una paura folle le torceva le viscere, ma la rabbia era ben più forte; così si lasciò preparare per le nozze dalle donne addette a questa funzione.
La fecero immergere in un mastello di legno pieno di acqua calda e fiori di gelsomino, le spalmarono il corpo con olio profumato, le lavarono i capelli, le tagliarono le unghie delle mani e dei piedi colorandole di rosa. Le ispezionarono il corpo minuziosamente per controllare che non avesse ferite in grado di sanguinare e simulare la deflorazione che doveva avvenire quella notte. Era lì ma non c’era, era solo il suo giovane corpo che mani esperte stavano manipolando.
Voleva fermamente, con dignità e orgoglio, contro la zia e contro tutti, che il lenzuolo macchiato di sangue sventolasse al mattino dopo: una bandiera, la prova di quanto erano state immeritate le insinuazioni e le cattiverie che aveva subito e sopportato.
Il lungo velo e fiori di gelsomino intrecciati tra i capelli, la pelle olivastra e il nero corvino dei capelli spiccavano sul bianco quasi abbagliante del vestito quando uscì dalla roulotte. Due ragazzi come guardie del corpo la scortarono fino alla tavola degli sposi e dei familiari; gli altri ospiti, più di duecento, presero posto in altre, lunghe tavolate. Raggiunto l’accordo con la famiglia di Steven, che avrebbe pagato una considerevole somma come risarcimento per la promessa infranta, conversavano tranquillamente, con gli altri invitati, gli zii Ugo, Violeta Norka, la mancata sposa.
Un fazzoletto colorato sulla spalla dei maschi, segno che erano ospiti graditi, lunghe, ampie gonne e camicette colorate per le donne di qualsiasi età anch’esse con fiori tra i capelli, e solo per la sposa fiori bianchi.
Il pranzo, intervallato da musica e balli, durò fino al calar della notte.
Danka era al centro di un’attenzione mai avuta prima; parole e frasi e cantilene di un rito antichissimo che non riusciva a seguire, sulla fronte dita che tracciavano segni augurali; le mani intrecciate con Steven per il fatidico sì. Ubriaca senza aver bevuto, la sua mente, come una telecamera dimenticata accesa da un operatore distratto, stava incamerando fotogrammi di colori di suoni e odori, emozioni fortissime senza riuscire a legarle tra di loro.
La luna ormai alta nel cielo, la festa era finita e lo sposo la stava aspettando sulla porta della roulotte, aveva le braccia alzate a mo’ di arco, e suo zio Ugo la fece passare sotto quello, che simbolicamente , rappresentava l’ingresso alla nuova vita.
Danka e Steven rimasti soli si guardarono, la stessa timidezza, la stessa paura, la stessa innocenza negli occhi. Avevano entrambi quattordici anni.
Fuori si sentivano le voci dei parenti e degli anziani, riuniti intorno alla roulotte ad aspettare, aspettare che fosse consumato il matrimonio e che la prova fosse esibita.
Steven si fece coraggio, fece sedere Danka ai bordi del letto, le sollevò il vestito mentre il cuore di Danka sembrava schizzarle fuori dal petto. Ella chiuse gli occhi e aspettò…
Steven le tolse il velo, le scarpe, le calze e cominciò a sfilarle il vestito, piano piano e con delicatezza.
Sempre con gli occhi chiusi, Danka sentiva le mani un po’ sudate di Steven, che tremavano mentre le toglieva la sottoveste e lo slippino di pizzo e il reggiseno; e poi.il suo corpo nudo, la gola secca, il respiro strozzato, paura pura e l’attesa…
“Come sei bella!” disse Steven; e Danka aprì gli occhi, colse nello sguardo di lui ammirazione e tenerezza mentre con piccoli, teneri baci le sfiorava il ventre e il seno.
Ora ne era certa, sarebbe stata felice con Steven; il destino aveva tessuto la sua trama, la cugina Norka che doveva essere la sposa, era stata solo un mezzo.
Anche Steven si spogliò, giovane eccitato ma inesperto, anche lui alla prima volta.
I loro corpi nudi, entrambi desiderosi e timorosi di conoscersi, di toccarsi, di baciarsi come fanno gli adulti; ma come entrare nell’intimità, unica e irripetibile di quei momenti, quando si percepiva la presenza dei parenti che aspettavano impazienti la prova dell’atto consumato e della verginità deflorata?
La natura, con le sue leggi che sfuggono alla ragione, li portò in un’isola lontana, soli con le loro emozioni, dove il tempo perse valore, dove paura e desiderio magicamente si fusero.
Al mattino, al sorgere del sole, Steven uscì sventolando il lenzuolo come il vessillo di un conquistatore, lo fissò tra le due finestre perché tutti lo potessero vedere.
Un applauso e un’esplosione di grida, di urla, suonatori di fisarmonica e violino intonarono antiche melodie zingare, il campo improvvisamente era desto, era vivo, era festa grande.
Danka, sulla porta della roulotte, sorrideva, riflessi d’oro nei suoi occhi stanchi; tutti gli invitati, donne e uomini, in fila ordinata, l’avrebbero abbracciata, lì sulla soglia della sua nuova casa, l’omaggio che spettava alla giovanissima sposa.
Anche zia Violeta non poteva sottrarsi.