1
È dura impresa, per un autore che si trovi in piena scrittura di un romanzo, continuare a narrare la realtà parallela nell’incombere di quella presente, chiamata cronaca, da cui scaturisce costernazione e istinto di rivolta. Egli attenderà alla sua opera ormai con riluttanza, senza il rapimento necessario. È questa anche la mia condizione.
Non ho più nulla da mangiare, ieri sera ho divorato un piatto di patate. Dovrò ora andare, con sguardo forse folle o forse smarrito come ne vedo altri, in qualcuno di quei luoghi-mangiatoie in cui è consentito l’accesso a un non inoculato: unica libertà per ominidi allevati in batteria.
È oggi una data storica: è fatto obbligo di sottoporsi alla siringa se si ha cinquant’anni, più un giorno, fino a quello stesso della morte. È una sorta di ergastolo casalingo, inflitto a chi non vuol farsi violare.
Ho visto nella mia infanzia un bambino rifiutare il latte — alimento altamente simbolico — a costo di punizioni. Egli era sempre più resistente, quanto più manesca diventava sua madre. Una mattina che assistetti io, quando si era raggomitolato in un angolo, affranto e affamato, lei lo strattonò, lo spogliò e lo spinse nudo sul balcone. «Alla vergogna, finché non me lo chiederai, il latte!» gli gridò con la sua voce acuta, che straziava soprattutto quando, rifacendo il letto, cantava “Vissi d’arte, vissi d’amore”.
Fuggii. Giunto al portone ancora furente, suonai il campanello e attesi. Quando ella si affacciò, le dissi: «Zia Aurelia, sei maleducata!»
Attraversata la strada, prima di varcare il portone di casa mia, che era di fronte, vidi da sotto in su mio cugino esposto al ludibrio. Ma non aveva un atteggiamento mortificato o vergognoso: assorto, prendeva il sole, dritto in piedi e spavaldo. Non guardò verso di me, ma fingeva di fumare. Con altrettanta fermezza, avrebbe oggi evitato la siringa, come allora aveva scagliato via la tazza, per quanto potesse contenere il suo bene. Mi pare di fargli onore, resistendo io.
Mentre tutti vanno in maschera, io porto a spasso la faccia nuda come lui esponeva il suo uccellino implume. E questo presente, saturo di benevolenze prepotenti che schioccano come fruste a ogni consiglio dei ministri, interferisce con il mondo che vado tracciando con la scrittura, svenandolo nell’anima mia. Queste due complessità si intersecano e si contaminano, guastandomi l’umore e il sonno.
Ormai meno la scrittura come altri porta a spasso il cane per rendere sopportabile l’infierire del tempo, con la differenza buona che non mi lecca la faccia. Per la prima volta, non scrivo in piena gioia. È un cattivo presagio?
2
Scoppia ora una vera guerra dove scorre l’azzurro Dnieper, per cui si piange anche qui, in Sicilia e nel villaggio mio. Scendo per comprare pane e broccoli, di mala voglia nel timore di incontrare la signora del piano di sotto rossa in viso e le tristi madri agli scaffali, addolorate come se i bimbi dell’estuario, del golfo, delle pianure, delle metropoli e degli asili fossero di loro appartenenza, benché esse stesse — come tutti — siano autrici di crudeltà quotidiane, modeste e terribili.
Io sono stupito della generale confusione mentale. Quelli che interpretano i fatti e con sicura precisione distinguono tra morte e morte, proprio essi mi spaventano a morte. Sembra che sia esecrabile estinguere un civile, mentre per logica di guerra sia legittimo fare secco un soldato, che dopotutto è un civile coartato e quindi doppiamente vittima. Forti del diritto de L’Aia, i commentatori individuano dove precisamente la belligeranza sconfini nel crimine di guerra, quando già la guerra è il crimine maggiore. Guerra! Disquisire sulle moderazioni che ne sancirebbero l’eticità non è un segno di pazzia?
Ogni rapporto umano è visto come una naturale e sana competizione per esistere, calmierata dalla forza maggiore della legge, in cui si sostanzia la nostra civiltà. Questo realismo crudo viene temperato con la provvidenziale trasformazione del Dio degli eserciti nel Dio dell’amore. Amore, praticando il quale è possibile infliggere i più atroci tormenti, ascrivendoli ad accidenti o a imperfezioni di esso a causa della nostra indegnità. Credo di capire quale sia la necessità di tale ammanto e non vorrei che se ne privasse la debole umanità; ma quello che non riesco ad afferrare è la difficoltà di mettere al bando il duello fra le nazioni, come si vieta senza grossi problemi fra gli individui.
O almeno, lo so: L’ONU non è affatto la magistratura suprema e libera che estende una giusta legge su tutti uguale, avendo i mezzi per farla rispettare.
Di conseguenza, ancora è legittimo il pretenzioso mestiere di analista geopolitico, che consiste nella pratica a distanza di una sorta di psichiatria sulle nazioni, per le quali si esprime la diagnosi senza produrre la prognosi.
Il mio dirimpettaio crede di averla: «Non c’è che l’Anarchia! Non ti dice niente che questa è messa al bando e la guerra no? La gente non pensa nemmeno na nticchia!» Che volete, ognuno dice la sua.
Io dico che, restando così le cose, non ci sia che opporsi, rifiutando anche il latte se viene dal tiranno. Ma, in questo caso, la resistenza efficace e nobile è sempre quella di Gandi? Chi glielo va a dire?