IL PECCATO ORIGINALE ovvero DIO È UNO SCRITTORE di Giuseppe Campolo

I più intelligenti, come i fessi, sono spesso i più indebitati e di minor successo.
Essi sono riflessivi e, se si attengono ancora a leggi di natura, queste sono di categoria più alta, che astrae ahimè dall’istinto di predazione.
L’uomo di Neanderthal era più intelligente del Sapiens, ma mancava di furbizia e soprattutto di malizia, non era possessivo e non teneva a freno le donne sue dalle bianche carni e dai fianchi larghi e possenti, novità accattivante per i Sapiens risaliti all’Europa dalle profondità dell’Africa, che ariani non si potevano dire. Le sedussero o le rapirono, le sottomisero e se ne servirono, godettero della più assortita poligamia e del bene di numerosa prole, rendendo possibile una società sempre più complessa, necessariamente patriarcale.
L’homo con cui ci hanno indotto a identificarci estingueva il suo competitore, privandolo dei ricettacoli del seme e assorbendone i caratteri genetici che gli fecero apprendere la qualità delle azioni, distinguere il bene dal male e percepire il sentimento oscuro che poi si chiamò contrizione. Tale peccato originale, in pratica un parricidio, costituisce il tormento delle generazioni future a quelle, che determinò fratture e stratificazioni nella struttura della psiche di quello che così era diventato “Sapiens Sapiens”, infelice progenie. Il maschio ha cercato di far ricadere sulla forza di seduzione della donna la colpa della violazione dell’albero della vita e del conseguente parto doloroso, castigo dunque che questa aveva meritato, ma che in realtà è la beffa inflitta dall’imbastardito DNA che, se fece l’acquisto del cranio più sviluppato, trascurò di trasferire l’abbondanza dei fianchi che dovevano farlo passare.
Questa è l’ipotesi più benigna per noi, sulla scomparsa del nostro ancestrale collega e fratello, a cui siamo Caino. L’altra supposizione possibile ci fa onta maggiore.
L’uomo neandertalense, dalla lattea pelle e dagli occhi azzurri, non ebbe difficoltà a ingravidare magnanimamente le donne scure e dagli stretti fianchi che gli si offrivano, capaci di dar piacere nuovo e indimenticabile. Anche qui pagano le donne con un parto quasi impossibile, con il consolante compenso però di figli meno bruti. Agli uomini del nord fu chiesto un prezzo più alto ancora: furono massacrati per vendetta e per invidia dell’agricoltura che il nomade predatore non conosceva ancora. Delitto d’onore e primo olocausto, pratica quest’ultima a cui il Sapiens Sapiens era ben predisposto e che ebbe modo in seguito di perfezionare e affinare contro ogni minoranza.
Ipotesi magari entrambe vere, giacché coerenti al fine di estinguere un’intera razza. Forse cornuti, siamo sicuramente bastardi; quelli più Sapiens fra noi, dei gran bastardi.
Avendo definito “ominide” l’essere, pur nostro avo, dagli antenati nostri sterminato, che però affrescava le pereti e le volte delle grotte che abitava, e di cui il flauto ricavato da un osso di sessanta mila anni fa ci racconta della dote del canto e del ballo, ora che la scienza ha accertato che i suoi geni sono per sempre inscritti nell’elica doppia del codice che struttura il nostro corpo, la nostra mente e la nostra psiche, ci si fa sapere che in realtà è in ragione trascurabile di un misero uno, fino a un massimo del sempre poco quattro per cento, ma omettendo di notare che assieme a lui condividiamo il novanta per cento del genoma con i primati. Dunque, fosse l’uno per cento, equivarrebbe al dieci per cento di ciò che è prettamente umano in noi. Il quattro equivarrebbe al quaranta per cento!
L’artista Neanderthal ci contorce dentro, preme come un germoglio oppresso da una terra dura. Nobile esempio di tale accezione di bastardo è lo scrittore.
Se lo scrittore fosse dio, vorrebbe sfuggire alla sua santa pace; dal suo tempo in attesa, nell’increato suo buio, la materia che sfugge e dà luogo alle coordinate del moto, esprimerebbe fragoroso incipit di fuoco, fuso in infiniti pixel di energia materiale, per galassie, stelle e comete. Il suo senso artistico gl’imporrebbe sottendere grandi misteri e giuocare con ambigue allusioni. Per non perdere interesse nei ritmi, distese e sequenze temporali, introdurrebbe l’indeterminatezza del libero arbitrio per le particelle di costruzione, le forme e gli esseri. In favore del suo gusto del dramma, inventerebbe il male e il suo difetto: il bene, di per sé privo di ogni contenuto; ma non ne sarebbe abbastanza soddisfatto: aggiungerebbe gli opposti segni magnetici, il maschio e la femmina, la vita e la morte. E poiché è pure beffardo, ordinerebbe tutto per frattali bluffardeschi.
Dio è uno scrittore. Per lo meno, è fatto a sua immagine e somiglianza.

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ANSIA di Annalisa Farinello

SOLAMENTE LE OPINIONI CHE ABBIAMO DELLE COSE, CI TURBANO (Epitteto)

Si parla molto di ansia, di persone ansiose, di situazioni ansiogene. Parlare di ansia è un po’ come parlare della febbre, sappiamo di averla ma sappiamo esattamente che cos’è? Se possiamo definire la febbre una reazione di difesa del nostro organismo di fronte ad un agente patogeno, l’ansia che funzione ha?
L’ansia è quello stato di “attivazione” fisiologico che parte dalla Formazione Reticolare Attivante Ascendente del tronco del nostro cervello e che, attraverso un complesso processo biochimico di neurotrasmettitori come adrenalina, noradrenalina, serotonina, cortisolo e gaba, ci mette nelle condizioni di rispondere agli stimoli dell’ambiente esterno in modo adeguato e, dovrebbe quindi avere una funzione adattiva.
Si sono fatte molte classificazioni dell’ansia in relazione agli eventi che la provocano, le più frequenti che nella pratica clinica lo psicoterapeuta si trova di fronte sono:
Ansia sociale – si teme il parlare in pubblico, trovarsi a confronto con più persone, essere osservati mentre si lavora, non saper portare le proprie idee o ragioni in una discussione anche pacifica ecc.
Ansia specifica per una situazione ben definita – sostenere un esame, confronto con persone dell’altro sesso, contesti nuovi ecc.
Ansia generalizzata – si teme sempre che succeda qualcosa a se’ o agli altri.
Ansia da prestazione così frequente nei disturbi sessuali.
Tutte le situazioni ansiogene hanno in comune la capacità di suscitare uno stato di eccitazione che si manifesta con alterazione di alcuni parametri fisiologici, molto diverso di quando tranquillamente stiamo seduti a leggere un libro oppure straiati in riva al mare a goderci il sole.
Se il nostro organismo fosse sempre nella stessa “attivazione” come in vacanza in una bella giornata al mare, non supereremmo mai un’esame, un colloquio di lavoro e anche la persona a cui teniamo ci riterrebbe come minimo “addormentati”.
Cos’è allora che chiamiamo ansia e che spesso ci blocca nelle situazioni invalidandone il risultato in toto o in parte?
Qual’è dunque la funzione positiva, adattiva, quella di preparare il nostro organismo a rispondere in modo adeguato a richieste esterne diverse?
Prendiamo come esempio la nostra automobile: una quantità di carburante in difetto o in ecceso produce lo stesso risultato; il motore perde colpi o si “ingolfa”.
Succede anche a noi, quando la nostra F.R.A.A è poco o troppo attivata, il risultato delle nostre azioni rischia di essere ugualmente compromesso.
Che cosa regola quindi la giusta quantità, per così dire, di attivazione in relazione allo stimolo esterno a cui dobbiamo rispondere?
Qui entra il gioco il nostro sistema cognitivo, i nostri pensieri e il valore che diamo al risultato delle nostre azioni.
Questo è intimamente legato al giudizio del mondo esterno e, a quanto la nostra autostima sia dipendente da queste valutazioni.
Fin dalla più tenera età interiorizziamo modelli di riferimento che la famiglia e la società in qualche modo ci impongono.
Ci vogliono tutti bravissimi, bellissimi, eccellenti in qualche campo, protesi verso il successo e il denaro sembrano essere gli unici parametri con cui ci si può confrontare; è questo il peso che, anche incosciamente, ci portiamo addosso.
Chi commette una “stupidaggine” viene definito spesso stupido, ed è questo giudizio totalizzante che temiamo.
Una persona con un buon livello di autostima conosce i suoi pregi, i suoi punti di forza, le sue abilità, ma è anche consapevole dei suoi limiti, dei suoi difetti, delle sue fragilità, delle cose che non conosce e non sa fare. E’ nella sua interezza di persona la sua forza, è disponibile ma non si fa manipolare, non teme il giudizio degli altri, non tende a creare un’immagine di se’ diversa, si presenta com’è, sa dire “non lo so” senza sentirsi in imbarazzo, “non mi interessa” senza sentirsi privo di interessi, sa dire di no senza sentirsi in colpa. Si relaziona positivamente con gli altri indipendentemente dal contesto in cui si trova.
Tanto più il nostro giudizio di valore sarà condizionato da fattori esterni, tanto più saremo facile preda di quell’ansia, che non solo non ci aiuterà, anzi, ci penalizzerà.
Il timore del giudizio, il sentirsi sempre sotto esame crea un circolo vizioso e l’ansia diventa anticipatoria, cioè cognitivamente la situazione che si teme si anticipa in un processo cover creando quello stato di attivazione che “ingolfa” il nostro sistema di risposta.
L’ansia è sempre in relazione a situazioni che noi viviamo come pericolose, pericolose per la nostra autostima, pericolose perché temiamo l’insuccesso, perché irrazionalmente pensano che un errore ci renda sbagliati, perché temiamo di non essere accettati, di non rispondere alle aspettative e alle richieste che ci vengono fatte dalle persone che amiamo.
Molti disturbi somatici che non trovano riscontro nel campo medico, sono spesso imputabili a una sindrome ansiosa.
L’ansia intesa come fisiologica attivazione, è positiva e non può essere eliminata. E’ necessario imparare a gestirla attraverso una più corretta valutazione cognitiva: dobbiamo dare il giusto peso ai nostri bisogni interiori, abbandonare l’idea di apparire per poter essere, liberarci dalle idee irrazionali e irrealistiche, diventare finalmente attori e non spettatori della nostra vita.

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L’INSUCCESSO SUBLIME E IL TRIONFO DELLA RELATIVITÀ di Giuseppe Campolo

Da quando lo conosco, più di trent’anni, studia la Relatività. Questa è una complessa costruzione teorico matematica complicata da sofisticate sperimentazioni che vanno avanti sarà un secolo ben presto. Mica voglio confutarla io in due parole.
Ve ne parlo perché avendo intenzione di scrivere un articolo sull’Insuccesso Sublime, fantasticandoci sopra, non so come la Relatività con annessi artifizi mi disturbava il pensiero. Mi si presentava come un sofisma sul tempo, niente di serio da interessare la Santa Inquisizione. Einstein non è un Crocefisso, un Prometeo; lui ha e ha avuto in vita successo come un semplice impostore, benché anche i suoi sacerdoti ci campino. La qual cosa mi è sospetta assai, mi resta enigmatica come il tempo. Un patriarca pacifista che non dà fastidio ai signori della guerra. Un idolo, un profeta, una bandiera, una faccia di moda; tutto di moderno impianto.
Cenavo solo, e quasi non vedevo il piatto. Vedevo il Bigbang, l’inizio del tempo e poi il Flopbang, la fine, tempo zero materia zero spazio zero.
Come dire niente del tutto, o nel niente il tutto. Ero ancora un ragazzo, e sono stato fulminato mentre guardavo un tramonto, me ne ricordo ancora quando non li guardo più da un pezzo perché mi sono ormai amari, fulminato dall’idea che gli attributi di Dio sono identici a quelli del Nulla. Prima del tempo, Dio o il Nulla, la stessa identica cosa, che però non si può liquidare così. I sacerdoti della fisica spinta, per i quali ho la stessa deferenza che essi danno a se stessi, ci dicono che un attimo prima della conflagrazione che ha dato inizio a tutto il bendidio non c’era il tempo e nessun’altra cosa, nemmeno il movimento dunque e nemmeno la Singolarità, perché altrimenti qualche fenomeno sussisteva e dunque il tempo.
Situazione davvero singolare, perché ditemi come si concepisce l’inizio di qualcosa, il Bigbang dico mica niente, se non c’è un processo che lo genera. Mettiamo in causa la mente di Dio? Io non ho niente in contrario. Ma allora lì non c’era il Nulla tutt’uno con Dio, perché c’era un pensiero, e il pensiero non può avere svolgimento in un tempo assente. Non so perché mi fa ridere l’idea che tutto l’universo sia un fugace pensiero di Dio, e un’infinità di universi fanno un discorsetto di Dio. Ma a chi?
Mi guardo bene dal parlare così a quella Torre mistica di cui facevo cenno all’inizio, il quale è in volo o in ascensione su quelle formule matematiche che a me dopo un poco danno il mal d’aria.
Dell’Insuccesso Sublime ormai vi parlerò un’altra volta.

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MARTE di Giuseppe Campolo

Non ci si deve sforzare a dimostrare la seduzione che esercita ciò che è massimamente inospitale, sull’essere umano. Si sforza già quest’ultimo a darne prova, indefessamente lavorando per far diventare la Terra un incubo, che richiederà molto eroismo e molti olocausti per continuare ad abitarla nel prossimo futuro. Incontenibile gioia stanno suscitando, infatti, le notizie di catastrofi ambientali che dai continenti giungono, appagando il gusto del brivido e la passione del dramma.
Inoltre si agogna colonizzare quell’esempio vero di terrore, che noi chiamiamo pianeta rosso e i babilonesi Nergal cioè morte e pestilenza. Dai greci in poi è il dio della guerra, Marte, anche così poco raccomandabile.
Marte è peggio che la Siberia e l’Artico per il freddo, inoltre non ha un’atmosfera respirabile, ed essa è una fascia troppo piccola per proteggere i coloni dai raggi cosmici e dal vento solare. Pianeta del tutto indifeso, anche per la mancanza di campo magnetico: non ha un vivo cuore di ferro come il nostro, ma di pietra inerte.
Si aggiunga che possiede una gravità dimezzata rispetto alla Terra. Che bello! direbbe il vostro piccino comprendendo che potrebbe fare salti di due metri, prima di sapere che ben presto non sarebbe più in grado di eseguirli, perché il suo corpo si adatterebbe, affievolendosi.
Marte è una prigione infernale. Ma ci manderanno della gente mentalmente ben condizionata, che si figura di essere eroica pioniera sui confini della Scienza. Quante medaglie ancora!
Marte è un poliamore di miniera. Successivamente ci manderanno minatori e tecnici bisognosi di lavoro, allettati da formidabili contratti d’ingaggio in favore delle famiglie. Queste capiranno che li stanno vendendo e non li rivedranno mai più? Non vorranno capirlo e riusciranno a credere, esse beneficiarie (non meravigliatevi), che i loro congiunti sono eroi dell’umanità!
Eppure nessuno, né voi né io, è immune dal fascino dell’ignoto che giace in sognante moto nello spazio. Allora ci figuriamo di poter cambiare quell’inferno in eden, impiantando foreste, introducendo animali, producendo buona atmosfera in quantità. I vegetariani premono per la produzione di foglie di fico altamente proteiche, il cui lattice può essere dato agli infanti e da cui si possa ricavare parmigiano reggiano e ricotta pecorina in quelle lande.
Fabbricare l’aria va bene, ma se il pianeta non ha gran massa per trattenerla e se la fa sfuggire di nuovo? Aumenteremo la massa, manca a noi? Eccoci a rimorchiare asteroidi, di cui ce n’é a volontà giusto in quei pressi (ricchi d’oro, che fa un bel peso), per adagiarli nel fondo dei crateri. Quanto lavoro per i prossimi secoli!
E colonie rivali.
E guerre.
Ma alla fine il pianeta avrà massa simile alla Terra; i Tesla lo doteranno del magnetismo necessario, con ben assestati fulmini sui minerali di ferro apportati; i botanici, dell’antica erba annuale ora faranno una pianta OGM perenne, che quattro volte l’anno porta riflessi dorati sul ghiaccio, con spighe grandi quanto la fiaccola della libertà, dai chicchi di un chilo l’uno buoni per celiaci, mutuando il fusto possente di un’altra, sempre della famiglia delle graminacee: il bambù Moso, resistente al freddo e alle urine degli incontinenti. Ogni chicco di “grenego” (tal specifico nome lo hanno suggerito gli esperantisti in UNESCO), appena forato dall’ago di una macchina, si svuota di una farina di semola rimacinata in un sacchetto ben commisurato, che automaticamente viene chiuso sotto vuoto plus. Il progetto è finanziato da Rothschild Junior XIII; il relativo laboratorio, costruito in speciale bianchissimo polistirolo ultracompresso, è insediato fra i nuovi anfratti che, svanendo, il ghiaccio ha lasciato nella banchisa dell’Antartide, di cui con buon effetto sostituisce la riflessione dei raggi solari.
Non sembra che l’aumento sostanziale di massa del nostro vicino che siamo pronti a colonizzare, secolo più secolo meno, possa avere gravi ripercussioni sull’equilibrio del sistema solare, tranne che i due satelliti, i cui nomi sono l’equivalente di paura e terrore, ne verrebbero irrimediabilmente attratti; e sarebbe dunque il caso di provvedere a farli planare per primi. Ma molti romantici stanno raccogliendo le firme su Avaaz per riunirli in un’unica luna, con la spinta di qualche razzo e successive opportune imbracature, a cui far prendere gradualmente quota fino all’equilibrio di una giusta orbita, più lenta e più godibile. Non dico soltanto godibile esteticamente come argentata luna, ma pure come pratica stazione aerospaziale.
E l’acqua, non è un grave problema? Facilissimo da risolvere! Questo bene prezioso e semplice è costituito da idrogeno e ossigeno, si sa. Di ossigeno in Marte ce n’è in abbondanza, se si ha l’accortezza di togliere, dall’anidrite carbonica, il carbonio che può sempre servire. Non resta, alla fine, che portare lì tutte le bombe a idrogeno che abbiamo qui; e l’acqua scorrerà limpida, disinfettata dai raggi gamma, nei giardini marziani.

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UN SALOTTO DI PAZZI di Giuseppe Campolo

Il credente non può pensare, non può nemmeno cambiare una parola della dottrina già formulata. Il teosofo invece è una sorta di credente libero che non solo può cambiare parole e frasi, ma, con la serietà dei veri giocatori, lanciare impunemente può simboli e ipotetiche realtà metafisiche con decisione e durezza quale richiederebbe l’inerzia delle palle da biliardo. Frequentavo un salotto, in Messina, dove erano in allegria accolti gli eretici di ogni sconfessione. Un vero archivio di bizzarri tipi, le cui professioni apparivano controindicate a quel tipo di speculazioni. Stupiva un commercialista, un avvocato, un vigile urbano, un ufficiale della guardia di finanza che pure era poeta ermetico e che io giudicavo sadico dalle sue sortite. Ma quant’erano deliziose quelle presunzioni! Corbellerie che mi piacerebbe raccontare tutte; ma, facendolo, è certo che perderei un po’ di credibilità. Agli autori si attribuiscono tutti i vizi dei loro personaggi.
Un simpatico folle, un grassottello teosofo di mezza età venuto da Trieste, dove notoriamente ce n’è tutto un covo, sosteneva, per noi d’intorno, novità madornali su ogni campo dello scibile che venisse toccato. Perché dovete sapere che la nostra ospite, una longilinea adorabile dai capelli tagliati corti alla sbarazzina, era farfalla curiosa di ogni fiore strano germinato dall’intelletto umano. Ed era così amabile con ognuno cui dava la parola, che questi si sarebbe ucciso se non avesse saputo ammannire una stranezza. Solo la presunzione inflessibile della guardia urbana, con la sua boccuccia tonda, quasi un becco, mi infastidiva; o era il suo tipo di sguardo che non potevo sopportare, pur esso di obliquità eretica, sulla padrona di casa, la quale tutti amavamo ma con signorile discrezione. Quello invece pareva le presentasse una multa con mani agitate.
Ma la mia intenzione è parlarvi del triestino, questa volta, che era lì con la moglie, che pure pendeva dalle sue labbra come per avallarlo. Egli era un professore di matematica e parlava come a lezione. Ma che lezione! Il ministro della pubblica istruzione lo avrebbe radiato, se lo avesse potuto ascoltare. La mia confusione mentale parte da quella sera. La figlia più grande della nostra signora era di tali forme misurate che si sarebbe detto segnassero lo spartiacque tra l’ordinario e lo straordinario, e sedeva accanto a me sopravanzando in fascino, mi pareva, la sua stessa madre, la cui aura m’investiva dal lato destro. Le sedie in circolo erano ben accostate, ma la mia e quella della piccola, per puro caso, si toccavano e la sua coscia destra premeva contro la mia sinistra con disinvoltura, e mai tepore fu più delizioso.
Mi è ancora difficile esporre con ordine, di quel matematico, l’opinare sui massimi misteri. Gli scienziati, diceva, pretendono di essere creduti, al pari di sacerdoti, per quelle che sono le loro fantasie; e la Chiesa li odia a ragione, sospettandoli di voler erigere a religione la scienza, di cui ogni nuovo profeta non è che uno scismatico.
Si chiamava Tindaro, per un teosofo nome ben strano, ma il Caso, si sa, ama fare ironia e burlarsi di noi. Seduto sulla ben imbottita bella sedia dagli arrotondati legni, teneva il piede destro avanti e il sinistro dietro, come pronto a partire per i cento metri. Egli era un ammirevole giocoliere degli assiomi fissi. “La luce,” diceva, “non ha velocità costante, contrariamente a quanto si crede ancora”; ed è affermazione che non dimentico. “Poiché il tempo è inversamente proporzionale alla velocità, il viaggiatore che va a cavallo di un fotone è (quasi) fermo nel tempo. Dunque la luce si muove veloce nello spazio e appena appena nel tempo cioè corre quasi ferma. Se potesse correre di più, fino a fermare il tempo, sarebbe l’annichilimento; e non è lecito pensarlo nemmeno agli scienziati. Semplice da capire: se gli astri arrestassero il moto, l’inizio e la fine del tempo coinciderebbero per velocità assoluta di esso, che solo il moto della materia può rallentare. Nel benefico universale ruotare, per attraversare lo stesso spazio, alla luce occorre un secondo e alla terra quattordicimila. Per quel poco che corre, però, la terra rallenta un po’ il tempo, per noi, consentendoci di crescere e non morire tutti analfabeti. Nei freddi e men veloci pianeti esterni vivremmo men di più, ma restare ibernati non costerebbe nulla”.
Si era usi aspettare che tutti si accomiatassero per fermarsi a commentare, madre e figlia e io, bevendo qualcosa. Quella sera fu tè freddo, che mi diede coliche tutta la notte.
Non dirò il nome di nessuna delle due. La ragazza mi accompagnò come di consueto alla porta, dove ci soffermavamo a chiacchierare ancora un po’. Ero molto prudente allora, e quel che mi riuscì più ardito fu di notare, dissimulando l’allusione, che la serata era stata piacevole.
Mi rispose: “Giocaci con la tua bella fantasia!”. Mi accorsi così di averne un po’.

     

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    ROMA CITTA’ ETERNA di Antonella Giordano

    Ho letto con interesse i risultati di un sondaggio pubblicato da un importante istituto di ricerca sul livello di benessere registrato in 14 città metropolitane italiane. L’indagine, elaborando i risultati sulla base di dieci diversi parametri di benessere economico e sociale, confina Roma in fondo alla classifica, al terz’ultimo posto, precisando che “quella di Roma è un’inarrestabile parabola discendente”.

    Negli ultimi anni noto la convergenza, nelle fonti di analisi, di tentativi finalizzati a misurare la ricchezza, ancorandola ad indicatori di carattere sintetico e numerico, per stilare, con criteri alquanto soggettivi, graduatorie di merito in materia di cultura, economia, produttività, rispetto della legalità e altri aspetti. Non fa sicuramente piacere non trovare la città in cui si vive tra i primi posti e, come nel caso riportato, vederla anzi relegata in una posizione di retroguardia. Il desiderio di un economista è quello di misurare il livello di coerenza con valori nei quali non rientrano solamente la ricchezza e la proprietà ma tale obiettivo può dirsi non ancora raggiunto. Basti considerare che due Nobel in economia, quali Sen e Stiglitz, sono da sempre impegnati nella ridefinizione di indicatori più complessi dello stato di benessere generale dei cittadini, che tengano conto, tra l’altro, anche delle possibilità relazionali e di integrazione che il territorio consente di realizzare, come fattore contabilizzabile nell’unità di misura del FIL (o GWB General Well Being). Trovo che sia giusto sforzarsi di misurare il benessere alla luce dell’integrazione tra sufficienza materiale e cultura nell’agglomerato non circoscritto al perimetro del centro città. Una tale prospettiva consente di reinterpretare il ruolo di Roma come città dell’accoglienza e, forse, di cogliere qualche spunto di riflessione. Roma, fin dall’epoca arcaica, è stata una città di “stranieri” di variegata provenienza. Non a caso sorse, infatti, attorno a un luogo d’incontro e di scontro tra genti diverse, perché l’isola Tiberina rappresentava un guado sicuro, sul quale insistevano molteplici assi di scambio: le vie del sale e del bestiame, i traffici marittimi e fluviali.

    Il primo libro dell’Ab Urbe Condita dello storico Tito Livio riporta tra le importanti figure della Roma monarchica e repubblicana persone non autoctone, quali i re sabini Numa Pompilio ed Anco Marzio e, emblematicamente, Tarquinio Prisco, nato a Tarquinia da un mercante greco e da una nobile locale, capostipite di una dinastia di origine etrusca. Sappiamo che la gens Claudia era sabina, come testimoniato dal nome del capostipite, Appio Claudio Sabino, e che molti erano i consoli di origine italica o etrusca. La disomogeneità della popolazione sui sette colli sicuramente rese l’amalgamarsi etnico lento ma non preclusivo delle possibilità di inserimento e di affermazione dei singoli, che proseguirono nel tempo facendo sì che Roma divenisse, non solo il fulcro del mondo mediterraneo che tutti conoscono, ma anche l’enorme magnete demografico, che non sempre si ricorda.

    Lucio Anneo Seneca, che era figlio di una famiglia di emigrati romani, nel dialogo Ad Helviam matrem de consolatione (2-3) scriveva :

    “Sono confluiti qui dai loro municipi, dalle loro colonie, da ogni part e del mondo. Alcuni sono stati spinti qui dal l’ambizione, altri da desiderio di un incarico pubblico, altri dalle incombenze diplomatiche , altri dal la ricerca di un luogo adatto alla loro lussuria e ricco di vizi, altri da l desiderio d i studiare , altri da quello di assistere agli spettacoli, alcuni ancora sono stati attirati dall’amicizia, altri dalla ricerca di maggiori possibilità per esprimere il proprio talento; qualcuno è venuto per mettere in vendita la propria bellezza, qualcun altro la propria eloquenza. Non c’è razza umana che non sia venuta in questa città.”

    Il passo di Seneca dà una misura della grandezza di Roma come città cosmopolita e, ritengo. anche meritocratica.

    Quando si pensa all’enorme afflusso di schiavi, di immigrati mercanti, artigiani e marinai di passaggio, che ne popolava le strade affiorano nell’immaginario scene di brutalità riconducibili al loro impiego nei circhi come gladiatori o alla manodopera servile nelle tenute agricole e nelle dimore patrizie ma, se si pensa al successo delle commedie del cartaginese Afro Publio Terenzio nella prima metà del II secolo, non può sottacersi l’importante funzione culturale che assolveva tale numerosa umanità.

    Grazie agli schiavi Roma era un centro di cultura internazionale nel quale docenti di varia origine , talvolta non liberi o da poco liberati, insegnavano a studenti di altrettanto variegata provenienza o aprivano scuole (esempio della meritocrazia romana), come quella dell’egiziano Plotino nel 245 d.C., che contava tra i numerosissimi studenti il tiro Porfirio, autore della biografia del maestro (Vita Plotini), incentivati dalla volontà del governo che favoriva la presenza di filosofi, retori e medici.

    Giulio Cesare, per esempio, accordò la cittadinanza a “omnisque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores”(Svetonio, Vita Divi Juli,42), Augusto fece lo stesso (Vita Divi Augusti, 42), Vespasiano creò cattedre di retorica e grammatica greca (Vita Divi Vespasiani, 18) ed entrambi , stando a quanto scrive lo storico Svetonio (Vita Divi Juli, 39) promuovevano spettacoli in più lingue per fornire non solo le possibilità relazionali delle comunità immigrate provenienti dal mediterraneo e da oltralpe (con il passaggio dalla repubblica all’impero s’insediarono anche i Galli) ma anche le opportunità di lavoro e di “sviluppo professionale”. Il governo dell’Urbe offriva possibilità di integrazione, meritocrazia ma anche pene severe per nulla facenti o sovversivi.

    Quale la conclusione cui si arriva dopo la rilettura essenziale della vita sociale della Roma caput mundi? Roma è da sempre una città, come tutte, con le sue contraddizioni: cosmopolita con i problemi connessi all’affollamento demografico, caotica e chiassosa, perennemente nota come ai limiti dell’igiene e per le molte derive folcloristiche del vernacolo ma, come poche, ricca di bellezze artistiche e di disponibilità all’accoglienza. Dalle origini è stata consegnata al futuro con questi attributi e con questi attributi sfida le contumelie del tempo.

    La grandezza di Roma viene ferita dalle nequizie derivanti da fatti e persone ma non compromessa nella sua prospettiva vitale perché al suo interno vivono e operano tanti costruttori di futuro benessere, ai quali un economista affida il suo auspicio perché, con impegno e senso di responsabilità, possano essere valorizzati quanto di meglio ha dato di sè nel corso dei secoli in ambito sociale, amministrativo, nella giustizia, nelle arti.

    E voglio concludere queste mie brevi note con le sempre attuali riflessioni di Nicolò Machiavelli che ammirava la città eterna, della quale non faceva mistero di riconoscere gli venisse la nobiltà dell’ispirazione e una certa elevatezza morale. “Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità, ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. La politica o l’arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo”.

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    WELFARE DOMESTICO di Antonella Giordano

    L’Italia, insieme alla Germania e al Giappone, è uno dei Paesi più anziani al mondo, e da oggi al 2050 il numero delle persone con più di 75 anni è destinato a salire dagli attuali 7 fino a 12 milioni, ovvero più del 74 per cento, passando quindi dall’11 per cento della popolazione al 21 per cento.

    In ragione del trend, cresce la necessità per molte famiglie, in cui entrambi i genitori sono occupati molto spesso per l’intera giornata lavorativa, di disporre di un numero crescente di baby-sitter per i fanciulli e badanti per gli anziani.

    Negli ultimi anni, purtroppo caratterizzati da una evidente crisi economica, lo Stato ha, infatti, sempre più spesso delegato alle famiglie la gestione del welfare. Secondo le stime dell’Istat solo il 10 per cento degli oltre 2 milioni di persone non autosufficienti è assistito in strutture residenziali. Non è possibile contare su un’assistenza domiciliare integrata a cura delle Asl, o sui servizi di assistenza domiciliare a cura dei comuni, poiché allo stato attuale tali servizi riescono a raggiungere rispettivamente 650 mila e 130 mila anziani, quasi sempre per un tempo molto limitato, e non coprono quindi quello che sarebbe il fabbisogno di moltissimi cittadini.

    Si consideri, inoltre, che la figura del «caregiver familiare», ovvero una persona che si prenda cura, a titolo gratuito, di un genitore o del coniuge non autosufficiente, istituzionalizzata tramite l’istituzione di un fondo di sostegno di 60 milioni di euro che si è rivelato insufficiente alla copertura necessaria.

    Negli ultimi anni la condizione delle madri lavoratrici con figli è diventata drammatica. Molte di esse sono costrette  ad impegnare gran parte del loro stipendio per pagare le baby-sitter e alcune di loro, addirittura, sono costrette ad abbandonare il proprio lavoro, perché non ce la fanno più ad erogare la somma richiesta da chi bada ai loro figli.  Tale situazione determina  un aumento della domanda soprattutto nel periodo estivo: le vacanze scolastiche degli alunni italiani, infatti, ovvero 200 giorni l’anno rispetto ai 175 degli altri Paesi, superano spesso i giorni di ferie, in media 2 o 3 settimane, dei genitori.

    Dovrebbe far riflettere il dato riportato  da  una ricerca della Domina – Associazione nazionale famiglie datori di lavoro domestico – che afferma le famiglie italiane spendano per i lavoratori domestici 7 miliardi di euro ogni anno, facendone risparmiare 15 allo Stato che, altrimenti, dovrebbe farsi carico di circa 800 mila anziani non autosufficienti e, in egual modo, dovrebbe in qualche misura provvedere, con l’apertura di più asili nido, scuole a tempo pieno, mense e altro, a supportare le famiglie in cui entrambi i genitori hanno un lavoro a tempo pieno e sono impossibilitati a rimanere in casa insieme ai propri figli.

    A quanto fin qui detto va aggiunto che i lavoratori domestici attualmente impiegati presso le famiglie italiane – badanti e babysitter comprese – nel nostro Paese superano di molto i 2 milioni, tra loro molti sono stranieri, la maggior parte non in regola con i permessi di soggiorno e, anche per questo motivo, quasi il 60 per cento non è assunto in maniera regolare.

    Tale fenomeno fino ad alcuni anni, gestito a posteriori attraverso provvedimenti di regolarizzazione, necessiterebbe di maggiore attenzione da parte dello Stato.

    Attualmente per chi assume un lavoratore domestico le agevolazioni fiscali per chi ricorre a un regolare contratto sono pressoché inesistenti: si possono, infatti, dedurre solo i contributi, fino a un massimo di 1.500 euro l’anno, mentre si possono detrarre i contributi per le badanti di persone non autosufficienti, fino a un massimo di 200 euro l’anno.

    Sarebbero auspicabili iniziative di  welfare volte ad  abbattere i costi a carico delle famiglie che si avvalgono di collaboratori che forniscono un aiuto in casa, una colf, una badante oppure una baby-sitter, anche attraverso una totale deducibilità delle spese sostenute per pagare i collaboratori domestici in regola, prevedendo un sistema che consenta di sottrarre dal reddito imponibile, sul quale vengono calcolate le tasse da pagare, non solo i contributi ma anche lo stipendio pagato alle colf e alle badanti, così anche da riuscire a contrastare la precarietà rendendo meno vantaggioso l’utilizzo dei contratti a termine o, peggio, di assunzioni in «nero», particolarmente diffuse nel settore, e sostenere le famiglie che hanno la necessità di ricorrere a questo tipo di collaborazioni.

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    FISCO E SPESA PUBBLICA PER IL BENE COMUNE di Antonella Giordano

    Le evidenze statistiche sul sommerso economico e sull’evasione fiscale confermano che tali fenomeni rappresentano il peggiore deterrente all’ottimizzazione di un sistema Paese fondato su equità e produttività. Sommerso ed evasione fiscale non sono assolutamente sinonimi perché si riferiscono a fattispecie che producono effetti diversi (e non solo nelle rilevazioni contabili). L’economia sommersa è parte  dell’economia non osservata e l’evasione fiscale è  collegata all’occultamento di basi imponibili generate dall’impiego di fattori di produzione (il sommerso economico). L’economia non osservata comprende, in teoria, anche le attività illegali che ad oggi non sono valutate dall’Istat e che quindi non rientrano nel computo del Pil.

    Il trend di crescita dell’evasione fiscale parallelamente alla crescita della pressione fiscale che, malgrado la intensificazione dei controlli, colloca il nostro Paese in maglia nera nel contesto internazionale non può essere sicuramente negato ma, in un’ottica di comparazione internazionale con altri Stati, merita di essere ridimensionato nei termini di analisi. L’Italia è lo stato nel quale l’organismo deputato alle stime statistiche, l’Istat, fotografando la situazione del sommerso con puntualità consente la possibilità di “diagnosi”e la misurazione annuale ufficiale a differenza dei tanti Stati  che  non forniscono alcuna informazione sul fenomeno, sebbene il medesimo debba essere valutato, in ottemperanza agli obblighi comunitari, secondo gli standard statistici internazionali .

    Basti considerare che la stessa virtuosa Germania, additata come modello di eupolitica finanziaria, non fornisce alcuna indicazione sulla frazione di economia sommersa inclusa nel suo prodotto interno lordo.

    Sappiamo che imposte e tasse sono necessarie per finanziare i servizi offerti dallo Stato centrale e dalle amministrazioni locali e per effettuare  gli investimenti pubblici ma sappiamo anche che l’entità della pretesa fiscale della pubblica amministrazione è determinata, nel medio lungo termine, dall’ampiezza della spesa pubblica secondo l’equazione spend and tax (contrapposta alla tax and spend di matrice liberale) in ossequio alla quale  per poter ridurre le tasse bisogna prima  ridurre le spese.

    Ma cosa accade quando le pretese del fisco raggiungono livelli elevati? Accade che i contribuenti che possono evadere optano per uscire dal sistema dell’economia legale per rifugiarsi nel sommerso mentre i contribuenti che per qualche ragione non possono o non riescono ad evadere restano stritolati dalla pressione fiscale e rifiutano  di partecipare all’attività produttiva. Sono questi coloro che, in numero sempre crescente, perdono la fiducia nel livello di efficienza e qualità della spesa pubblica nel convincimento all’aumento degli oneri imposti dalla fiscalità generale non corrispondano migliori servizi sociali, sistemi previdenziali, investimenti per infrastrutture e tecnologie, politiche fiscali redistributive.

     Si depaupera così il concetto di bene pubblico. Le manovre di finanza pubblica e gli interventi diretti alla rimodulazione della spesa rischiano di conseguire risultati trascurabili se si disconoscono i valori della res pubblica confondendoli con quelli della  res nullius, in nome dei quali i “contribuenti” decidono di occultare i redditi verso enclaves sommerse e di  non rispettare le obbligazioni tributarie e contributive derivanti dalla propria attività produttiva.

    In Italia gli investimenti piuttosto che essere indirizzati in infrastrutture fisiche e immateriali, in ricerca e sviluppo e per compensare l’ascesa delle prestazioni pensionistiche e la domanda di servizi sociali, continuano ad essere diretti a coprire il debito pubblico cumulato negli anni. Uno sviluppo sostenibile che tenga conto del diverso sviluppo territoriale è fortemente inibito dalla difficoltà di coprirne i costi con le risorse provenienti dalla leva fiscale.

    Il ridimensionamento strategico, attraverso l’attuazione della spending-review, del sistema organizzativo ridurrebbe sprechi e inefficienze riqualificando le singole finalità su cui è articolato il conto delle amministrazioni pubbliche: ciò dovrebbe far uscire il Paese dalla situazione entropica del momento.

    Perché gli obbiettivi dei piani di spesa pubblica non restino suggestioni è necessario andare oltre il saldo del bilancio pubblico dettato dall’impostazione virtuosa ed equilibrata della finanza pubblica, e considerare che la conduzione della finanza pubblica deve porsi l’obiettivo di ridisegnare l’area dell’intervento pubblico.

    La spending review  in nome di un’etica pubblica condivisa è una soluzione di natura economica e, quindi, non può essere limitata alla lotta agli sprechi e ai privilegi ma deve riaffermare i valori della res pubblica che impongono, tra l’altro, che tutti debbano pagare le tasse. Pagare tutti perché si possa tutti pagar meno porterà ad una riduzione delle pretese fiscali e del tasso di sommerso e di evasione.

    In Italia, la frazione di Pil dovuta al sommerso economico è pari al 18%, come ha denunciato il presidente della Corte dei Conti lo scorso giugno  in un intervento alla Camera in occasione della Giornata della Giustizia tributaria, cui ha partecipato anche il Capo dello Stato.

    Il valore della  pressione fiscale (data dal rapporto tra gettito e Pil) è di pochi punti percentuali al di sotto del 50% e se da questo rapporto togliamo la parte di Pil che non paga imposte otteniamo che la pressione fiscale effettiva o legale (ossia quella che mediamente è sopportata da un euro di prodotto legalmente e totalmente dichiarato in Italia) va ben oltre  il 55% (cioè il più elevato valore registrato nella storia economica patria recente e, nel contempo, un record mondiale assoluto).

    Già nel  2008 l’Italia presentava un tasso di sommerso più che doppio rispetto al Regno Unito (8,1%), tra cinque e sei volte il tasso di sommerso francese (3,9%), otto volte il tasso di sommerso stimato per il Canada.

    Osservando i dati degli anni passati, per i quali è presente qualche informazione utilizzabile, solo per Messico e Spagna si hanno tassi così rilevanti di economia sommersa ma pur sempre inferiori  rispetto ai valori italiani.

    I dati degli Stati del Nord Europa risalgono ai primi anni 2000 e sono parametri lungi dall’essere eguagliati. L’Italia si posiziona sopra le medie europee per pressione fiscale  mentre nel corso degli anni 2000-2012 la grande maggioranza dei paesi Ocse ha ridotto il peso fiscale sui propri contribuenti.

    I Paesi nord-europei, caratterizzati da uno  Stato sociale funzionante, hanno ridotto la pressione fiscale apparente: di 6,3 punti la Svezia, di 4 la Finlandia, di 2,8 la Danimarca.

    Lasciando in disparte i Paesi piccoli come Cipro e Malta, oppure i Paesi dell’Est come la Polonia, che comunque hanno livelli molto ridotti della pressione fiscale (ancora oggi sotto il 35%), gli unici paesi europei “grandi” che hanno innalzato il prelievo sono stati il Portogallo, di 3 punti, la Francia, di quattro decimi, l’Italia, di 3,4 punti (European Commission (2010), Monitoring tax revenues and tax reforms in EU Member States).

    Forse dovrebbe far riflettere  il fatto che la maggior parte delle economie avanzate negli ultimi decenni hanno adottato strategie diverse dalla nostra per fare fronte ai tanti problemi di crescita, di equità, di benessere dei loro cittadini.

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    LA STELLA DI NATALE di Nicola Morandi

    LA STELLA DI NATALE

    Durante il periodo natalizio, su molte riviste scientifiche e non, è consuetudine trovare articoli che parlano della stella di Natale, la famosa stella che guidò i Re Magi dall’oriente fino alla grotta in cui nacque Gesù.

    Il racconto originale di questo avvenimento si trova nel vangelo di Matteo.

    Negli altri vangeli questo evento non è menzionato.

    Il racconto dice che i Magi seguirono “la stella che li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino”.

    Purtroppo il racconto è molto breve e impreciso.

    Che cos’era la stella che i Magi vedevano ad ovest, poiché essi venivano da oriente, cioè dalla Persia?

    Una nova? Una supernova?

    Probabilmente no.

    I diligenti e scrupolosi astronomi antichi di Cina, Giappone e Corea non hanno annotato nulla nei loro documenti a questo proposito durante quel periodo.

    Inoltre oggi non si trova alcun residuo (nebulosa, pulsar o buco nero) di un qualche fenomeno avvenuto duemila anni fa e che allora poteva essere osservato vicino all’orizzonte occidentale.

    Duecento anni dopo Cristo il teologo Origene ipotizzò che la stella di Betlemme fosse una cometa ma anche riguardo a questa proposta possiamo concludere allo stesso modo: perché nei documenti astronomici dei popoli dell’estremo oriente non c’è nulla in proposito?

    Inoltre dobbiamo anche considerare che, ai tempi in cui questi eventi accaddero, le comete erano considerate messaggere del male, certamente non araldi della gloria di Dio.

    E’ stata poi considerata l’ipotesi di una congiunzione tra pianeti, fenomeni che ai tempi antichi, godevano di una grande considerazione.

    Abbiamo già detto che Matteo parla di una sola stella (“aster” nell’antica lingua greca), tuttavia nel 2 a. C. ci fu una stretta congiunzione tra Giove e Venere sull’orizzonte ovest, avvenuta nella costellazione del Leone, la quale, a quel tempo, rappresentava la Giudea.

    Va detto però che alcuni scienziati, attingendo da altre fonti, pensano che la costellazione che rappresentava la Giudea fosse quella dei Pesci.

    Altri pensano all’Ariete, altri alla Vergine.

    In quegli anni avvennero altre congiunzioni in quelle zone di cielo: per esempio nel 7 a. C., nei Pesci, avvenne una congiunzione tra Giove e Saturno; nel 6 ci fu un’importante congiunzione tra Venere, Saturno, Luna e Giove nella costellazione dell’Ariete.

    Purtroppo la prima avvenne sull’orizzonte est-sudest, la seconda su quello orientale.

    Perciò con questi eventi mal si accorda il racconto di Matteo.

    Alcuni studiosi hanno proposto come stella di Natale l’occultazione di Giove da parte della Luna, avvenuta nel 6 a. C. ma altri non sono d’accordo perché, essi dicono, in quel periodo un tale evento sarebbe stato interpretato come l’annuncio della morte di un re, non della sua nascita.

    Così, dal punto di vista astronomico, il problema è del tutto in alto mare.

    Tuttavia alcune conclusioni si possono trarre: abbiamo già detto che soltanto in un vangelo si trova il racconto dei Magi guidati da una stella che cercano il re appena nato.

    Non potrebbe Matteo, per meglio glorificare Nostro Signore, aver tratto ispirazione dai molti miti dei tempi antichi che spesso raccontano di un futuro grande re, generato da una madre vergine, annunciato da una stella miracolosa e nato durante il regno di un re potente e malvagio, il quale puntualmente cerca, senza successo, di ucciderlo mentre egli è ancora piccolo, per evitare che, in età adulta, possa spodestarlo?

    Non è accaduto più o meno lo stesso a Mitra o all’eroe greco Perseo? E le storie di Zeus, Edipo, Romolo o dello storicissimo Alessandro Magno non somigliano molto all’evento descritto nel vangelo di Matteo?

    Forse molti scienziati si sono scervellati inutilmente nel cercare concretezza in un racconto che forse ha soltanto un valore simbolico, e che non perderebbe o acquisirebbe nulla di più anche qualora si riuscisse a inserirlo in un quadro reale e coerente.

    Non possiamo però negare che i tentativi per riuscirci fanno sempre giungere a considerazioni scientifiche e culturali molto interessanti.

    Buona Natale e felice anno nuovo a tutti.

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    IL NATALE ANTICO di Andrea Rossi

    Negli anni trenta e quaranta le disponibilità finanziarie non permettevano di realizzare un modello di Natale contemporaneo, completo ma corrotto da un consumismo dilagante. Le giornate di festa, all’epoca, erano caratterizzate da una sentita attesa, da un affetto che coinvolgeva le famiglie dei paesi e da un clima di serena semplicità.

    La Vigilia di Natale era sovente trascorsa giocando a tombola insieme alle famiglie del paese, nell’attesa della partecipazione alla S. Messa di mezzanotte recitata in latino.

    Gli abitanti dei paesi di periferia si riunivano in gruppo e, muniti di acetilene, lampade ad olio o a petrolio, percorrevano in preghiera, al freddo e al buio, la mulattiera che permetteva di raggiungere la chiesa. Il parroco, al loro arrivo li accoglieva nella sua cucina, per farli riscaldare prima dell’inizio della celebrazione. Al termine della funzione, qualche sacerdote donava alcune caramelle ai bambini presenti e successivamente si procedeva con la benedizione del presepe.

    Nella maggioranza dei casi “l’albero di Natale” era senza illuminazione, costituito da rami d’alloro, di pungitopo o ginepro e addobbato con arance, mandarini, mele, alcune caramelle o piccoli torroncini.

    Nelle famiglie più benestanti era possibile trovare un “Babbo Natale” o un oggetto di cioccolata. La raccolta del muschio nei boschi creava l’ambiente ideale per inserire qualche statuina e preparare piccoli presepi. La nascita di Gesù, la comparsa della stella cometa e l’arrivo dei Re Magi donavano un’atmosfera particolare a quei giorni diversi dagli altri.

    Le letterine che si usavano scrivere per l’occasione contenevano gli auguri rivolti alla famiglia, senza alcuna richiesta di doni. L’arrivo di “Gesù Bambino” era molto atteso dai più piccoli che, al risveglio, correvano sotto l’albero, di anno in anno, per raccogliere, in modeste quantità, torroncini, arachidi, noci e fichi secchi.

    I bambini più fortunati potevano trovare una bambola di pezza, un cestino di dolci, una scarpetta di cioccolato o comuni oggetti scolastici come quaderni. I nonni, talvolta, offrivano ai propri nipoti i regali più belli come ad esempio una cartella, un mantello di panno per la scuola o una figura di pezza.

    Momenti di vera gioia avvolgevano quei giorni che, davanti agli sguardi del nostro tempo, apparirebbero tetri e inconcepibili da vivere. La ricchezza del saper apprezzare ogni cosa avvolgeva una realtà ormai sconosciuta.

    I genitori, a causa delle scarse condizioni economiche, non si scambiavano doni e prestavano molta attenzione, nei casi frequenti di famiglie numerose, a distribuire regali uguali ai propri figli. La mattinata si dedicava alla preparazione del pranzo, un importante momento comunitario che si svolgeva insieme ai parenti. I pranzi avevano solitamente come primo piatto i ravioli, seguiti da un secondo a base di pollo (o bestiame allevato) e da una forma di classico pandolce preparato in casa che doveva durare fino all’Epifania. I protagonisti di fine pasto erano i bambini che, con la recita della poesia natalizia, ricevevano qualche centesimo per il motto “E le feste non sono liete / se non scorrono le monete”.

    Alcuni dolci venivano preparati per i parenti invitati e qualche famiglia impreziosiva la tavola con biscotti raffiguranti le varie forme a tema natalizio. Nel corso della cena, generalmente, erano serviti piatti di pasta in brodo, un po’ di tacchino e la giornata terminava allegramente con il canto dei vespri.

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