La poesia mi trasforma, modifica le mie emozioni per generarne altre, spezza i legami del mio io con l’ambiente esterno, mi ricostruisce riassestando le forze tra un pensiero e l’altro e sempre mi porta a star bene. Prendo coscienza delle mie trasformazioni quando vige il silenzio delle albe. Dentro quel silenzio del mattino, la temperatura, la pressione, la luce riescono a penetrare nei legami affettivi che mi tengono in vita, negli sguardi che mi sostengono, nelle forti sensazioni di amarezza che mi permettono di andare avanti e di riflettere sulle altrui sofferenze. Dentro la quiete di un inizio di luce, gli affetti che respiro dai miei cari, le storie raccontate della mia Napoli, i proponimenti sinceri di unione e di costruzione espressi dagli esperantisti, l’amore di Elina per Amedeo si proiettano nel mio profondo.
Ricerco l’essenza della poesia nei gesti, nei sorrisi, negli scritti, nel coraggio di vivere il dolore, nell’energia per alimentare l’amore. La trovo nel suono delle storie vere di Gennaro De Marino, ex compagno del liceo, quando descrive i costumi, le tradizioni, i comportamenti dei napoletani come “Dal Kronos al Kairos”. All’improvviso divento Memore, il protagonista che ricarica la corona dell’albero della vita per ascoltare in ogni momento il tintinnio cadenzato di tanti orologi nell’attesa del tempo propizio.
Dal Kronos al Kairòs
La casa in collina dell’ingegnere Memore D. e dell’architetto Gabriella P. è ancora piena di orologi, di ogni genere e forma: antichi, moderni, dotati di pesi, cordicelle e suonerie diverse.
La casa era naturalmente zeppa di piccole chiavi strane: servivano per dare la corda a questi meccanismi appesi ad ogni parete, dall’ingresso fino allo spogliatoio, passando dallo studio, dalla cucina, dal salone e dalla camera da letto.
Memore si fermava davanti ad ognuno di essi come se fossero state cappelle votive ed aiutandosi con uno scaletto gli dava la ricarica. Inutile descrivere cosa accadeva al trascorrere delle ore, minuti e quarti d’ora; gli ambienti di questa dimora si riempivano di tintinnii e rintocchi: un’orchestra composta dai suoni di questi orologi.
Con grande passione Memore recuperava, restaurava e metteva in funzione ogni meccanismo che gli capitava.
Gli piaceva avere in ogni angolo della casa qualcosa che misurasse il tempo cronologico ma il pezzo forte era l’orologio di una chiesa, abbandonato e fermo da chissà quanto tempo, somigliante ad una macchina leonardesca, piena di ingranaggi, carrucole, corde e grossi pesi di marmo; tutto racchiuso in una struttura di legno pesante e ferro battuto. Sicuramente una cosa antica, piazzata al centro del salone della sua casa.
Certo è che Memore con la preziosa collaborazione di Tonino S., un suo allievo della scuola “Casanova” di Napoli, aveva trascorso alcuni inverni a smontare e a studiare pezzo dopo pezzo la nuova creatura.
Suscitava la curiosità della gente questo marchingegno: “Ingegnè è veramente un orologio?” “Ma riuscirete a farlo camminare?”
Memore sarebbe riuscito a dargli corda? E lì di corde ve ne erano parecchie, grandi come quelle di una campana o di una nave.
Il meccanismo fu studiato e i problemi risolti. Finalmente si poteva ammirare il movimento spettacolare di questo orologio che aveva segnato il tempo di Dio.
Nel giorno del suo funerale in chiesa, il parroco ci raccontava che negli ultimi tempi Memore andava alla messa dei bambini, sedendosi negli ultimi banchi.