Una volta c’era un arcipelago.
Nel bel mezzo del Mediterraneo le isole Pelagie risaltavano sulla distesa del mare, come tre belle perle su un turchino tappeto regale.
Dall’alto distingueva l’oblunga Lampedusa e la piccola Lampione, le due vicine perle bianche, e anche la più discosta Linosa, la perla nera. Scese di quota e fece rotta verso l’isola maggiore. Il bel sole caldo sfavillava sulla superficie marina. Scorse il dorso di una balenottera che fendeva le onde, mentre emetteva una nuvoletta di vapor acqueo, che si dissolveva nell’alito dello scirocco.
Giunse sull’isola e la sorvolò a poca altezza dal suolo. Il suo ampio altopiano declinava piano con scarpate a picco sul mare, valloni erti e stretti, spiaggette di sabbia chiara. In una di esse alcune adulte tartarughe marine sostavano al sole, assorbendone il gradevole calore. Lungo la costa frastagliata l’acqua trasparente permetteva la visibilità fino a molti metri di profondità. La fauna abbondava con colori e varietà. La prateria sottomarina di posidonia arrivava in prossimità della riva. Intravide la statua sommersa della Madre e il Bambino, coi volti sollevati verso la luce che scendeva dal mattino, tutti circonfusi d’un fluido chiarore. La loro presenza signoreggiava con naturalezza.
Lasciò Lampedusa per puntare in direzione di Lampione, procedendo a volo radente sull’estensione blu lucente. Poco dopo incontrò un piccolo branco di delfini, che filavano frenetici facendo frequenti salti e tuffi, manifestando la loro gioia di nuotare.
Arrivò in breve tempo sull’isoletta deserta. In essa c’era soltanto un faro solitario. In quel momento era spento, ma splendeva la notte, illuminando la rotta ai naviganti. La sua luce era preziosa specialmente nella tenebra della tempesta. Egli ci fece sopra un rapido giro e virò verso la terza perla dell’arcipelago.
Sotto di lui scorreva un mondo limpido e profondo, un paradiso marino ricco di bellezza e di vita. D’improvviso una suadente pinna grigia tagliò l’armonia delle onde. Quindi fuoriuscirono fauci affilate e affamate. Uno squalo. Anche nell’Eden del mare non mancava il male. Tuttavia questa presenza arcana non contagiò la sua gioia di volare. Ciò lo fece andare soltanto più in alto.
E infine raggiunse la formosa e mora Linosa. La sua silhouette formata da tre vulcani ormai spenti spiccava nel cielo azzurro. Sembrava una nera Eva distesa al sole, con ancora l’innocenza non contaminata dalla sua ribellione. Sorvolò la spiaggia di sabbia scura punteggiata da gigli marini, cabrò lungo la pendice cosparsa da bassi fichi d’India e atterrò sulla vetta più alta.
La sua vista volteggiò sul vasto paesaggio. Le sue nari inalarono l’aria aulente. Il vento lisciò la sua livrea corvina. Allungò il collo, sollevò il becco e prese a emettere il suo verso di cormorano nero. Cantò per esprimere la sua gioia di esistere. Innalzò nel cielo il suo canto di gratitudine e d’amore al Creatore.
E il cielo l’accolse.